Complesso di San Pietro a Corte

Il complesso archeologico di San Pietro a Corte, è un'area nel centro storico di Salerno, in cui sono documentate e visibili le testimonianze archeologiche dei vari avvicendamenti storici a partire dal I secolo d.C. L'ingresso è sul Larghetto San Pietro a Corte.

L'area si estende nel sottosuolo ed in superficie, a diversi livelli stratigrafici, ed evidenzia documenti di particolare interesse storico, archeologico ed artistico. In particolare il sito risulta, in assoluto, l'unica testimonianza archeologica di architettura palaziale di epoca longobarda.

Nel 2012 il sito risulta escluso dal percorso UNESCO Longobardi in Italia: i luoghi del potere, teso a salvaguardare luoghi ricchi di testimonianze di arte e architettura longobarda, a causa di carenze dal punto di vista di servizi, info e accessibilità al sito. Il sito è parte integrante dell'Itinerario Culturale "Longobard Ways across Europe" candidato all'iscrizione nella lista degli Itinerari Culturali Europei del Consiglio d'Europa

Il Complesso monumentale di San Pietro a Corte in Salerno, costituito dall’ipogeo – Cappella di Sant’Anna, dal campanile, dall’aula superiore di rappresentanza e dalla Chiesa di san Pietro a Corte (Cappella Palatina) dedicata ai santi Pietro e Paolo, venne fondato in età longobarda dal duca-principe Arechi II nell’VIII secolo d. C., nell’arco cronologico compreso tra il 758 e il 774 e rappresenta un esempio unico in Europa di elevati murari di architettura civile longobarda. L’area su cui fu costruito il palatium era stata occupata in età romana da un impianto termale di epoca flavio-traianea (I-II sec. d. c.). In età tardoantica le strutture, abbandonate da tempo a causa di un’alluvione, furono in parte riutilizzate come luogo di culto cristiano con un annessa area sepolcrale che ha restituito epigrafi databili dalla metà del V al VII secolo d.C.. Nell’VIII sec. Con la costruzione del palatium vennero demolite le volte dell’edificio termale e all’interno dell’aula paleocristiana e del suo avancorpo sepolcrale furono costruiti potenti pilastri e semipilastri atti a reggere il solaio della soprastante aula di rappresentanza e della Chiesa (Cappella palatina).

Il Complesso Monumentale presenta quattro stratificazioni principali:


  • un edificio termale romano (I- II sec. d. C.);
  • un edificio di culto paleocristiano, con annessa area sepolcrale (V-VII sec. d. C.);
  • l’aula del trono e la Cappella privata di palazzo, di età longobarda (seconda metà VIII sec. d. C.);
  • la chiesa di San Pietro ‘a Corte’ con le sue fasi e gli affreschi romanici (dal XII sec.);
  • il palazzo pubblico medievale: nel corso del XIII secolo l’edificio fu anche sede delle riunioni del Parlamento ed in esso si teneva la cerimonia solenne del conferimento delle lauree della Scuola Medica Salernitana.

Il Chronicon Salernitanum testimonia di un campanile fatto erigere per volontà del principe Guaimario II intorno al 922 d.C., ma l’attuale campanile romanico che sorge sul lato nord della chiesa appartiene ad un’epoca successiva al X secolo, come è stato appurato sulla base dei rapporti stratigrafici con le altre strutture superstiti e le quote dei piani stradali antichi. Addossata alla parete settentrionale del complesso, la piccola cappella dedicata a Sant’Anna, contigua all’ipogeo, conserva un dipinto cinquecentesco che rappresenta la Vergine con il Bambino e Santi oltre ad altri affreschi presenti sulla parete Nord e sulla volta dedicati alla vita della Vergine, attribuiti a Filippo Pennino nella seconda metà del XVIII secolo.

Le terme romane

I lavori di scavo archeologico nell’ambiente ipogeo, iniziati con le campagne di scavo del 1976 e conclusesi alla fine degli anni ’80, hanno permesso la scoperta del frigidarium delle terme, ovvero la sala con vasca per le immersioni in acqua fredda. La struttura misurava 9×18 m circa per 13 metri di altezza e divisa in due zone provviste di coperture differenti: quella a nord con volta a crociera, quella a sud con volta a botte. Quest’ultima zona ospita la vasca, rivestita di lastre di marmo bianco alla quale si accede mediante tre gradini, rinvenuti privi di rivestimento e con qualche frammento di marmo bianco. L’ambiente in origine riceveva illuminazione da grandi finestroni lunati, inseriti nelle pareti orientali delle due zone provviste di vetrate. L’imponente costruzione in opus latericium, con specchiature in opus mixtum, rientra nel quadro dei complessi termali di età imperiale ed è databile all’età flavio-traianea (fine del I-II secolo d.C.). Tra il III e il IV secolo d.C. il complesso termale risulta in stato di abbandono fino alla completa obliterazione a causa di un’alluvione fine IV – inizio V secolo d.C.. La costruzione del palazzo di Arechi II coinvolse in pieno l’edificio termale e in particolare il frigidarium, che determinò con le proprie dimensioni quelle della sovrastante aula di rappresentanza con annessa chiesa dedicata ai SS. Pietro e Paolo (cappella palatina). Per questo motivo l’ambiente subì delle modifiche strutturali. In primo luogo furono smontate le volte dell’aula termale romana e, con i laterizi di risulta, fu realizzato un sistema di pilastri e setti murari di rafforzo per la sopraelevazione. Nonostante ciò Arechi non distrusse la piccola chiesa del V secolo per rispettare il luogo sacro.

Attualmente questi spazi si trovano nell'area ipogea a circa 5 metri sotto l'attuale livello stradale.

Gli ambienti proseguono verso nord-est, sotto l'attuale palazzo Fruscione, dove è stato recentemente messo in luce un pavimento musivo, mentre l'ipotesi di un calidarium sotto la chiesa del S. Salvatore non è stata avvalorata dall'indagine archeologica che invece ha evidenziato l'esistenza di un balneum altomedievale che si appoggia ai pilastri di età longobarda.

Ipogeo della chiesa di San Pietro a Corte

AREA CIMITERIALE LATO SOCRATES

Nell’angolo nord-ovest del vano occidentale del Frigidarium è collocata la tomba più antica presente nell’ipogeo. Essa custodiva le spoglie del vir spectabilis Socrates, vissuto quarantotto anni e morto nel 497: evidentemente un greco-bizantino titolare di un’alta carica amministrativa.

La sepoltura presenta una lastra epigrafica su cui è riportato il seguente epitaffio:

Essendo Console il nostro signore Anastasio perpetuo Augusto nel quattordicesimo giorno precedente le kalende di Dicembre [cioè 18 Novembre] qui riposa in pace Socrate, vir spectabilis (magistrato di alto rango) che visse quarantotto anni”.

La tomba di Socrates occupò un vano laterale di passaggio del frigidarium, tamponato in modo da creare una tomba monumentale detta ad “arcosolio”.

Nelle vicinanze della tomba di Socrates è stata rinvenuta la sepoltura di una bambina chiamata Theodenanda, classico nome goto che vuol dire appartenente a popolo audace datata al 566; l’iscrizione che l’ accompagna recita.

“Qui riposa in pace la innocente bambina Theodenanda che visse tre anni, sei mesi e nove giorni, deposta in questo luogo il 27 Settembre essendo imperatore Giustino [II] Principe Augusto nel suo primo anno di Consolato Indizione quindicesima” .

Un’ipotesi molto suggestiva ritiene che il padre della bimba fosse probabilmente uno dei maggiori funzionari degli Ostrogoti del tempo, appartenente a sangue reale in quanto una recente recensione di una nota studiosa lo ha indicato come il patrizio Èbremund sposatosi in tarda età con Teodenante, figlia (?) del re ostrogoto Teodàto, nipote di Teodorico il Grande. L’ipotesi si fonda sul fatto che Teodenanda è l’unico nome goto in Italia meridionale.

Tomba di Socrates (modello in 3D)

FASE TARDO ANTICA E ALBULUS

Nella seconda metà del V secolo l’ambiente ipogeo, in origine frigidarium delle terme romane, fu trasformato in chiesa (?) con area cimiteriale caratterizzata da sepolture databili tra il V e il VII secolo. Le sepolture chiariscono la continuità dell’uso di un edificio ecclesiastico da parte di famiglie di origine romana, greco-bizantina, gota: i nomi di Socrates, Albulo, Eutychia, Theodenanda, Verulo appartengono ad abitanti di una città dove diverse etnie convivevano.

Nell’angolo sud-ovest è collocata una sepoltura, datata al 629, di Albulus, giovane di cui non si sa nulla oltre l’epigrafe, che però assume particolare rilievo in quanto che presenta una delle imprecazioni tipiche del tempo contro chi profanasse la tomba in cerca di oggetti preziosi:

“Qui gode il sonno eterno la grata memoria di Àlbulo vissuto più o meno trentacinque anni, deposto il ventuno maggio indizione seconda essendo imperatore il nostro signore Eràclio Perpetuo Augusto nell’anno soprascritto. Se qualcuno violerà questo luogo che faccia la fine di Giuda”.

Epigrafe di Albulus

TEORIA DEI SANTI – PARETE SUD

Sul muro sud del vano orientale del Frigidarium è presente una Teoria di Santi databile all’inizio del XIII secolo. L’analisi degli affreschi mostra delle sensibili variazioni rispetto all’affresco sul pilastro; partendo da destra abbiamo la Vergine seduta su un trono con decorazioni che suggeriscono elementi di ricchezza e regalità; la Madonna ha in grembo Gesù che abbraccia la Madre accostando il suo volto a quello di Maria. Questo genere iconografico è definito “Madonna Eleusa”. Immediatamente accanto è dipinto San Giacomo, identificabile dall’iscrizione JAC alla destra del suo capo. A seguire abbiamo San Pietro, Santa Caterina d’Alessandria e un santo vescovo non identificato. Sul muro a destra che separa i due ambienti vi sono raffigurati San Giorgio e San Nicola di Myra datati al XIII-XIV secolo. I due Santi sono separati tra di loro da una riga appena leggibile. San Nicola, vestito in abiti vescovili, stringe il pastorale nella mano sinistra mentre la destra è benedicente. San Giorgio, in cattive condizioni di conservazione, è a cavallo con la mano destra sollevata nell’impugnare la lancia verso il basso contro il drago che è andato perso in seguito all’apertura dell’accesso di collegamento dei due ambienti.

SANTA CATERINA E MADONNA CON BAMBINO

Sul pilastro centrale di età “arechiana” (VIII sec.) è presente un affresco raffigurante a destra una Madonna in trono con Bambino e a sinistra Santa Caterina d’Alessandria. L’affresco è databile alla metà del XII secolo. Una semplice fascia bicroma bianca e rossa incornicia la rappresentazione. La Vergine è seduta su un trono composto da schienale, cuscino e suppedaneo decorato con perline bianche ed elementi geometrici. Maria regge nella mano destra una lunga croce astile mentre la sinistra è appoggiata sulla spalla del Figlio. Il Bambino ha nella mano sinistra un rotolo chiuso mentre la destra, mutila, doveva essere benedicente. A sinistra abbiamo Santa Caterina d’Alessandria identificabile dall’iscrizione E KATHER leggibili tra l’aureola e la spalla destra e dall’ampolla con il sangue del martirio. Nella vita di santa Caterina si narra come dopo il martirio per decapitazione della giovane egiziana sgorgasse dalle ossa senza sosta un olio in grado di sanare le malattie. La Santa quindi si pone come taumaturga e filosofa confermando la trasformazione dell’ambiente in un’aula della Scuola Medica Salernitana.

Il palazzo di Arechi II

Nel 774, dopo la discesa di Carlo Magno a Pavia, la resa di Pavia e di Desiderio, Arechi II, duca di Benevento si trasferì a Salerno dove lo attendeva un nuovo palazzo di governo, la cui costruzione era certamente avvenuta negli anni precedenti. In seguito si autoproclamò princeps gentis longobardorum dichiarandosi di fatto ultimo baluardo delle genti longobarde nella penisola.

Salerno era una città naturalmente fortificata: sita sul mare, protetta alle spalle dai monti, lontana dalle strade, dotata di un ottimo sistema difensivo con una solida cinta muraria bizantina.

Il Chronicon Salernitanum recita: in ea (Salerno) mire magnitudinis immo et pulcritudinis palacio construxit ed ancora racconta che nel luogo in cui fu costruito il palazzo il principe trovò un idolo d'oro dalla fusione del quale sarebbero state ricavate le decorazioni dorate che ornavano tutto l'edificio.

Di fatto il palazzo fu costruito in pieno centro cittadino ribadendo le scelte già fatte dai Longobardi a Pavia e a Benevento, e non considerando quindi ostili le popolazioni locali. La residenza si articolava su più livelli e si estendeva sull'asse nord-sud. La parte meridionale era innestata, probabilmente con una torre, sulle mura che affacciavano sulla spiaggia, dove una scalinata monumentale introduceva al palazzo.

Ciò che rimane del palazzo arechiano è ancora leggibile nell'edificio superstite che affianca la chiesa di S. stefano, in origine chiesa palatina, e nelle arcate sorrette da colonne e capitelli che si affacciano su via della Dogana Vecchia e che trovano riscontro con analoghi edifici di VIII-X secolo. L'unico ambiente superstite della residenza è la cappella palatina, costruita sulle preesistenti strutture romane. Quando Arechi decise di fare erigere il palazzo, fortificò le strutture romane che dovevano sostenere ora il peso di piani superiori. Sulle volte ormai crollate posizionò un solaio che divenne il pavimento della soprastante chiesa, che dedicò ai SS. Pietro e Paolo, decorandolo con splendidi mosaici in tessere marmoree di spoglio, di cui si conservano numerosi frammenti, che rimandano agli esempi longobardi di Cividale del Friuli, San Salvatore di Brescia e di Sant'Ilario di Port'Aurea di Benevento, mentre un imponente Titulus dedicatorio correva lungo i muri interni della chiesa magnificando l'opera del duca. L'aula, che fu chiesa e sala del trono, fu anche dotata di un atrio di cui rimane il solo loggiato di cui sono visibili delle bifore con archi in mattoni che poggiano al centro su una colonna con capitello altomedievale. L'ingresso all'aula avveniva attraverso un accesso posto sul muro sud, scomparso poi in seguito ai rifacimenti di età moderna e contemporanea.

Si era giunti a dubitare della reale esistenza di tale titulus, finché non vennero rinvenuti i frammenti con ".. GE DUC CLEME ..", facenti parte dell'esametro "DUC AGE DUC CLEMENS ARICHI PIA SUSCIPE VOTA". Le singole lettere sono incise nel marmo ed erano rivestite di bronzo dorato e delimitate sopra e sotto da listelli, anch'essi rivestiti di bronzo dorato.

TITULUS

Nella teca è possibile osservare alcuni frammenti del Titulus dettato da Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, che un tempo campeggiava sulle pareti della Cappella Palatina con il chiaro intento di celebrare Arechi II e il palazzo che aveva costruito a Salerno. Durante i lavori di scavo archeologico sono stati rinvenuti 11 frammenti del prezioso originale epigrafico. Il supporto è rappresentato da lastre di marmo bianco di provenienza orientale, alte 34,5 cm e spesse da 3 a 4.2 cm, che conservano una serie di lettere incise “a solco piatto”; alcuni fori permettevano di fissare le corrispondenti lettere in metallo, verosimilmente bronzo dorato. I caratteri epigrafici del titulus longobardo sono in scrittura capitale di base rettangolare, con un modulo di 16,5 cm di altezza – corrispondente alla metà del piede salernitano altomedievale. Le forme, le dimensioni e la tecnica esecutiva dell’incisione, ben attestate per le scritture monumentali degli archi trionfali di tradizione romano-imperiale, evocano immediatamente la grandezza ed il prestigio dell’età classica e ben si accordano cin i frammenti dell’opus sectile che decorava i pavimenti e le pareti della Cappella palatina. Grazie alla tradizione manoscritta, del testo originario si conoscono i sette versi iniziali:


[Chri]ST[E SALUS UTRIUSQUE DECUS SPES UNICA MUNDI] |

[DUC A] GE DUC C[LE]M[ENS ARICHIS PIA SUSCIPE VOTA |

PERPETUUMQUE TIBI HAEC CONDAS HABITACULA TEMPLI. |

REGNATORI TIBI SUMME DECUS TRINOMINIS ILLE |

HEBREAE GENTIS SOLYMIS CONSTRUXIT ASYLUM |

PONDERE QUOD FACTUM SIC CIRCUMSEPSIT OBRIZO |

DUXIT OPUS NIMIUM VARIIS SCULPTUMQUE FIGURIS |

BRAC(TEATIS)…]


«O Cristo, salvezza, Gloria ed unica speranza di entrambi i mondi orsù!,

Guida, indirizza benigno, e accogli i pii voti di Arechi

e a tua gloria edificherai in eterno questo tempio.

Per Te, sommo Sovrano, egli ha costruito

una dimora degna della Gerusalemme ebrea dai tre nomi e,

una volta portata a termine, l’ha ornata di purissimo oro

accrescendole enormemente il valore con varie figure bratteate…»

PARETI ARECHIANE

Tutti i cronisti dell’epoca, Paolo Diacono, Erchemperto, Leone Ostiense, fino all’autore del Chronicon Salernitanum, ci parlano della costruzione di questo edificio. La cappella si trovava a nord del palazzo, come è testimoniato anche da un passo del Chronicon Salernitanum:

«…(Arechi) fortificò in ogni parte questa città e in essa costruì un palazzo di meravigliosa estensione e bellezza e ivi, nella parte settentrionale, eresse una chiesa in onore dei beati Pietro e Paolo».

Del “sacro palatio” oggi resta ben poco, probabilmente perché inglobato nelle strutture moderne. Il restauro dell’aula superiore ha messo in luce la struttura muraria longobarda realizzata con l’alternanza di un filare di blocchetti in pietra e due filari in laterizi almeno su tre lati: sulla facciata, ad occidente, si può rilevare una serie di archi poggianti su colonne a formare un loggiato, sul lato nord, una bifora e una serie di monofore, illuminavano l’interno; l’aula è conclusa ad oriente da un’abside quadrangolare , mentre non è possibile dire nulla circa il lato meridionale, nel quale, probabilmente, era posto l’accesso all’ambiente o cappella palatina direttamente dal palatium. L’elemento architettonico più singolare venuto fuori dal restauro dell’Aula superiore è un loggiato presente sui lati settentrionale e meridionale. Il loggiato trova confronti nei palazzi di epoca tardo antica e bizantina costruiti sull’esempio delle domus romane.

In un mosaico databile al IV secolo d.C., rinvenuto all’interno di una villa romana a Cartagine, è possibile notare la presenza di un loggiato composto da colonne che caratterizza la facciata della villa circondato da due torri. La stessa tipologia era riscontrabile anche sulla facciata prospiciente il mare del Palazzo di Diocleziano a Spalato costruito tra la fine del III e l’inizi del IV secolo d.C.. Un altro esempio lo possiamo trovare nella decorazione musiva sulla parete destra della navata centrale di S. Apollinare Nuovo. Il mosaico è molto interessante perchè raffigura il Palatium teodoriciano in cui si può notare l’ingresso monumentale con ai lati un lungo colonnato sul quale corre un loggiato con archi a tutto sesto sorretti da colonne. Un altro confronto è possibile farlo con il complesso palatino di Santa Maria del Naranco ad Oviedo in Spagna. Questo fu costruito dal Re delle Asturie Ramiro I (842-850) perchè fosse la sua residenza e successivamente fu trasformato in santuario. Esso presenta un loggiato sui lati corti caratterizzato da una trifora con archi a tutto sesto sorretti da colonne in stile bizantino. I lati lunghi presentano delle monofore e su uno dei due lati la scala d’accesso all’edificio composta da due rampe.


Bifore dell'aula

OPUS SECTILE

Le fonti longobarde raccontano della singolare ricchezza dell’apparato decorativo della Cappella Palatina salernitana: ori e marmi risplendevano nella chiesa di Arechi II. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce frammenti di quella che fu la decorazione pavimentale e parietale: si tratta di un litostroto in marmi policromi eseguito secondo la tecnica dell’opus sectile e di un rivestimento parietale in porfido, vetro e oro. I lacerti rinvenuti sono stati inseriti in tre teche:

A sinistra abbiamo una composizione di quadrati in porfido verde grandi e piccoli, di triangoli isosceli in palombino e di rombi in rosso antico. Al centro la composizione è costituita da quattro rettangoli imperniati si di un piccolo quadrato di rosso antico, centrale nella composizione; i rettangoli, all’interno dei quali sono iscritte losanghe in lucullio, giallo antico o breccia, definite da listelli di porfido rosso o verde. A destra abbiamo una composizione molto particolare caratterizzata da una piastrella esagonale in palombino. Al centro dell’esagono si possono trovare un quadrato in porfido rosso o un tondo in porfido verde, cui fanno da corona tondini in porfido rosso e verde alternati, uniti all’elemento centrale da sottili canaletti. Nella teca in plexiglass a destra dell’altare è visibile parte della decorazione parietale che rivestiva l’abside composta da un’alternanza di dadi vitrei con foglia d’oro, porfido rosso e verde, incorniciati da listelli di porfido rosso.

Cappella di Sant'Anna

A metà del '500 il pavimento della chiesa superiore crollò rendendo inagibili entrambi i luoghi di culto la cui memoria fu affidata all'edicola votiva oggi inglobata nella chiesa di S. Anna, raffigurante la Madonna con a sinistra S. Pietro e a destra S. Caterina alessandrina. Nel 1576 la chiesa superiore subì un restauro. Nel 700 fu realizzata una scala d'ingresso alla stessa chiesa che conduce ad un protiro con un timpano sostenuto da colonne.

Gli ambienti a livello stradale fino agli anni cinquanta erano occupati da un fornaio, un carbonaio e dalla cappella di Sant'Anna. A partire dagli anni settanta partirono gli scavi della sovrintendenza per mettere in luce gli ambienti ipogei.

La piccola chiesa fu fondata nel 1725 da Monsignore Fabrizio di Capua sotto richiesta di Domenico Cardillo. Nel 1785 sappiamo che la chiesa era ancora adibita al culto ed era dotata di due altari e di una sacrestia per poi essere ampliata nei secoli successivi. Nel 1937 la cappella è adibita a bottega di un fabbro e successivamente a rivendita di carboni. Nel 1939 fu data in concessione alla confraternita di Santo Stefano dall'arcivescovado. Negli anni novanta risulta completamente abbandonata ma in seguito viene ristrutturata ed annessa ai vicini scavi di San Pietro a Corte.

La cappella sorge sul lato nord della Chiesa di San Pietro a Corte ed in seguito a degli scavi volti a verificare la consistenza del campanile, che si è dimostrato essere stato realizzato nel XV secolo, furono scoperte nel lato nord della cappella le tracce di strutture romane caratterizzate dall'opus reticolatum su muratura listata su tufelli a doppi corsi di laterizi.

FASE CINQUECENTESCA

Nel Cinquecento la chiesa di San Pietro a Corte divenne un centro di interesse pubblico e culturale e fu trasformata in abbazia commendataria. Nel 1505 Ferdinando il Cattolico trasferì al nobile napoletano Troiano Mormile ed ai suoi eredi la facoltà di nominare l’abate o rettore della Cappella Palatina. L’edificio, in questo periodo, ebbe principalmente una destinazione pubblica; venivano, infatti, conferite le lauree in medicina della Scuola Medica Salernitana. Nella seconda metà del ‘500 la chiesa subì delle trasformazioni da parte dell’abate Decio Caracciolo. L’intervento del 1576 trasformò l’abside da quadrata a semicircolare, fece ricostruire il pavimento della Cappella e fece asportare i marmi, compreso il titulus, che rivestivano le pareti. Un precedente intervento si ebbe nel 1573 all’esterno con la costruzione dell’attuale scala d’ingresso alla chiesa il cui ingresso originario era dall’interno palazzo stesso, probabilmente sul lato sud. La chiesa fu poi abbellita con la tavola lignea collocata sull’altare centrale; fu realizzata nel 1592 dal pittore Decio Tramontano e mostra i Santi Ciro, Giovanni Crisostomo, Pietro e Paolo che presentano alla Vergine e al Bambino Gesù il committente l’abate Decio Caracciolo. Guardando verso destra osserviamo due dipinti: San Giuda Taddeo su tela ottocentesca e Sant’Agata, opera tardo seicentesca di forte ispirazione caravaggesca.

Dipinto di Decio Tramontano - Santi Ciro, Giovanni Crisostomo, Pietro e Paolo che presentano alla Vergine e al Bambino Gesù il committente l’abate Decio Caracciolo.

FASE SETTECENTESCA

Alla fine del XVI secolo la chiesa di San Pietro a Corte passò alla famiglia Pignatelli che restaurò l’edificio dal 1730. A Giuseppe Pignatelli si deve la realizzazione dei due altari su cui spicca lo stemma della famiglia con le tre pignatte. Sulla parete sud osserviamo i dipinti rappresentanti San Giuseppe con Bambino, il Martirio di Santo Stefano e infine un dipinto di Romualdo Formosa su cui è raffigurato lo stesso Giuseppe Pignatelli. L’opera più interessante è sicuramente la tela dipinta raffigurante la “Gloria della Vergine” collocata sul soffitto realizzata negli anni ’40-50 del Settecento dal Filippo Pennino.

MAPPA