PÆstum

Paestum, nota anche come Pesto, è un'antica città della Magna Grecia chiamata dai fondatori Poseidonia in onore di Poseidone, ma devotissima ad Atena ed Era. Dopo la sua conquista da parte dei Lucani venne chiamata Paistom, per poi assumere, sotto i romani, il nome di Paestum. L'estensione del suo abitato è ancora oggi ben riconoscibile, racchiuso dalle sue mura greche, così come modificate in epoca lucana e poi romana.

È localizzata nella regione Campania, in provincia di Salerno, come frazione del comune di Capaccio Paestum, a circa 30 chilometri a sud di Salerno (97 chilometri a sud di Napoli). È situata nella Piana del Sele, vicino al litorale, nel golfo di Salerno, a nord del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. La località, nelle vicinanze della quale si annoverano Capaccio Scalo e Lido di Paestum, è servita da un'omonima stazione ferroviaria.

Nel 2016 ha fatto registrare circa 382.000 visitatori

Sommario:

Storia

Preistoria

La città è stata abitata fin dall'epoca preistorica. Ad oriente della Basilica, nell'area prospiciente l'ingresso, sono stati rinvenuti manufatti databili dall'età paleolitica fino all'età del bronzo; a sud di essa, verso Porta Giustizia, sono stati scoperti i resti di capanne, a testimonianza dell'esistenza di un abitato preistorico.

Nell'area del Tempio di Cerere, e tra questo e Porta Aurea, sono emerse attestazioni archeologiche che documentano uno stanziamento di età neolitica: poiché sia la Basilica che il Tempio di Cerere si trovano su due lievi alture - probabilmente in epoca preistorica più accentuate - si può immaginare che fossero occupate da due villaggi, separati da un piccolo torrente che scorreva dove oggi si trova il Foro. Forse in epoca eneolitica le due alture furono abitate dalla popolazione di origine egeo-anatolica appartenente alla facies della Civiltà del Gaudo, che poi scelse come luogo privilegiato per le sue sepolture la località Gaudo, situata a 1,4 chilometri a nord di Paestum.

Fondazione

La fonte letteraria principale sulla fondazione di Poseidonia è costituita da un passo di Strabone, che la mette in relazione con la polis di Sibari. L'interpretazione di questo passo è stata lungamente discussa dagli studiosi. Sulla base delle evidenze archeologiche raccolte finora, l'ipotesi più valida sembra essere quella secondo cui la fondazione della colonia sarebbe avvenuta in due tempi: al primo impianto, consistente nella costruzione di una fortificazione ("teichos") lungo la costa, sarebbe seguito l'arrivo in massa dei coloni e la fondazione vera e propria ("oikesis") della città.

In base ai dati archeologici si può tentare una ricostruzione del quadro che portò alla nascita della città. Verso la metà del VII secolo a.C., la città di Sibari iniziò a fondare una serie di sub-colonie lungo la costa tirrenica, con funzioni commerciali: tra esse si annoverano Laos ed uno scalo, il più settentrionale, presso la foce del Sele, dove venne fondato un santuario dedicato ad Hera, con valenza probabilmente emporica. I Sibariti giunsero nella piana del Sele tramite vie interne che la collegavano al Mare Ionio.

Grazie ad un intenso traffico commerciale che avveniva sia per mare - entrando in contatto con il mondo greco, etrusco e latino - sia via terra - commerciando con le popolazioni locali della piana e con quelle italiche nelle vallate interne - nella seconda metà del VII secolo a.C. si sviluppò velocemente l'insediamento che poi dovette dar luogo a Poseidonia, evento accelerato certamente anche da un preciso progetto di inurbamento. Una necropoli, scoperta nel 1969 subito al di fuori delle mura della città, contenente esclusivamente vasi greci di fattura corinzia, attesta che la polis doveva essere in vita già intorno all'anno 625 a.C.

Poseidonia: età greca

Dal 560 a.C. al 440 a.C. si assiste al periodo di massimo splendore e ricchezza di Poseidonia. Tale apice fu dovuto a diversi fattori, alcuni dei quali si possono ravvisare, ad esempio, nella diminuzione dell'influenza etrusca sulla riva destra del Sele nella prima metà del VI secolo a.C. Con l'allentarsi della presenza etrusca si dovette creare un vuoto di potere ed economico nella zona a nord del Sele, vuoto di cui non poté non avvantaggiarsi Poseidonia.

A tale evento seguirono altri due tragici accadimenti: la distruzione della città di Siris (=Policoro) sul Mar Ionio, da parte di Crotone, Sibari e Metaponto; e la distruzione di Sibari stessa nel 510 a.C., ad opera di Crotone. L'esplosione di benessere e di ricchezza, che si riscontra a Poseidonia in coincidenza con quest'ultimo avvenimento, fa sospettare che buona parte dei Sibariti, fuggiti dalla città distrutta, dovettero trovare rifugio nella loro sub-colonia, portandovi le proprie ricchezze. Ascrivibile al medesimo periodo è la costruzione di un monumentale sacello sotterraneo: potrebbe trattarsi di un cenotafio dedicato ad Is, mitico fondatore di Sibari, edificato a Poseidonia dai profughi Sibariti. Nello stesso arco cronologico, a distanza di cinquant'anni l'uno dall'altro, vengono eretti anche la cosiddetta Basilica (560 a.C. circa), il Tempio cosiddetto "di Cerere" (510 a.C. circa) ed il Tempio cosiddetto "di Nettuno" (460 a.C. circa).


Cittadini ed artigiani

Inizialmente ogni cittadino aveva una casa in città e un pezzo di terra in campagna. Delle abitazioni di età greca si conosce molto poco: infatti, sono stati scoperti soltanto alcuni ambienti di una casa di V secolo a.C.

I diritti e i doveri del cittadino comprendevano l’attività politica, il servizio militare e la partecipazione alla vita religiosa della comunità. Solo il cittadino adulto maschio poteva partecipare alle assemblee e, da ogni forma di partecipazione politica, erano esclusi le donne e gli schiavi. Le tappe della vita maschile e femminile erano segnate da numerosi riti di passaggio, in cui, sotto la protezione di una divinità, si celebrava il nuovo ruolo assunto dall’individuo nella società greca (adolescente/maschio adulto; fanciulla/donna sposata).

Quando la comunità si allarga e diventa più diversificata, anche la condizione dell’artigiano migliora gradualmente.

Nel VI a. C. e nel V a. C. le botteghe dei ceramisti di Poseidonia realizzano vasi di uso comune e da mensa, mentre alla fine del V a. C. cominciano ad essere fabbricati vasi figurati dipinti (a figure rosse). Tra i più conosciuti ceramografi pestani spicca Assteas, attivo tra il 380 e 350 a. C., che firmò i suoi prodotti con il proprio nome. L’unico suo vaso conservato a Paestum, dipinto con il mito di Bellerofonte e utilizzato per attingere e contenere acqua (hydrìa), proviene da una tomba a camera di Agropoli.

Cratere. Europa sul toro

La città dei morti

I greci seppellivano i morti fuori le mura, nelle “necropoli” (“città dei morti”). Le tombe e i corredi funerari rispecchiano lo status sociale della famiglia del defunto, nonché le aspettative e i valori della comunità.

I corredi provenienti dalle necropoli urbane più antiche, dei primi coloni venuti da Sibari (città della Calabria), presentano, molto spesso, nelle sepolture maschili, uno strumento utilizzato per la detersione del corpo (“strigile”) ed un vaso per contenere profumi (“alabastron”): oggetti che sembrano mettere in evidenza gli ideali atletici dei Greci.

Nelle sepolture successive, quando Poseidonia era dominata da genti provenienti dall’entroterra montuoso (i Lucani), emerge un ruolo fortemente militare del defunto maschio che viene deposto con armi di offesa e, spesso, con la sua armatura (elmo, corazza, schinieri). Caratteristiche delle sepolture appartenenti ai guerrieri armati è il motivo del c.d. “ritorno del guerriero”, associato alle rappresentazioni di corsa di bighe, pugilato e duello che rimandano ai giochi funebri svolti in onore del defunto.


L’entroterra

Inizialmente i coloni si insediarono nella pianura fertile lungo la costa; sulle montagne dell’entroterra vivevano altre popolazioni con i quali i Greci avevano rapporti variegati: a fasi di pace seguivano fasi di conflitti violenti.

Fin dal loro arrivo, i coloni greci affermano di essere i “signori” di un vasto territorio e ne marcano i confini con la costruzione di santuari che pongono i nuovi possedimenti sotto la protezione delle divinità: a nord, il santuario di Era presso il fiume Sele separa il versante abitato dai Greci dalla terra degli Etruschi. A sud, sul promontorio di Agropoli, sorge il santuario di Poseidone. Sulle colline alle spalle della città sceglie di abitare la dea del paesaggio selvatico, Artemide.

A una distanza ancora maggiore, piccoli santuari di campagna, sorti vicino alle sorgenti o alle strade, hanno la funzione di unire le popolazioni contadine nel segno di un culto rivolto, oltre a Era, soprattutto a Demetra, la divinità che concede agli uomini il dono della spiga di grano (alla dea si riferisce un altro importante luogo di culto a carattere extraurbano, situato in località S. Nicola di Albanella).

I Greci non amavano molto vivere “in periferia”, e quindi scelsero la fertile pianura di Poseidonia come spazio da destinare alla coltivazione dei cereali; infatti, questo tipo attività avrebbe permesso ai cittadini di occuparsi delle questioni importanti di cui si discuteva in città senza passare troppo tempo in campagna. Un significativo cambiamento si registra due secoli dopo l’arrivo dei primi coloni, quando, in seguito al cambiamento della società, tutta la campagna pestana viene scelta per essere abitata occupata in maniera stabile da gruppi di cui sono state indagate le necropoli.

Paistom: età lucana

In una data collocabile tra il 420 a.C. e 410 a.C., i Lucani presero il sopravvento nella città, mutandone il nome in Paistom. A parte sporadici riferimenti nelle fonti, non si conoscono i particolari bellici della conquista lucana, probabilmente perché non dovette trattarsi di una conquista repentina. È un processo che è possibile riscontrare in altre località (ad esempio nella non distante Neapolis), dove vi fu una lenta, graduale, ma costante infiltrazione dell'elemento italico, dapprima richiamato dagli stessi Greci per i lavori più umili e servili, per poi divenir parte della compagine sociale mediante il commercio e la partecipazione alla vita cittadina, fino a prevalere e a sostituirsi nel potere politico della città.

Sebbene letterati e poeti greci riportino il rimpianto dei Poseidoniati per la perduta libertà e per la decadenza della città, l'archeologia testimonia che il periodo di splendore proseguì ben oltre la "conquista" lucana, con la produzione di vasi dipinti (talora firmati da artisti di prim'ordine quali Assteas, Python e il Pittore di Afrodite), con sepolture copiosamente affrescate e preziosi corredi tombali. Tale ricchezza doveva derivare in larga misura dalla fertilità della piana del Sele, ma anche dalla produzione stessa di oggetti di grande qualità, parte cospicua di quei commerci instauratisi durante il periodo precedente. Neanche il carattere greco della città scomparve del tutto, come attestano, oltre la produzione dei vasi dipinti, anche la costruzione del bouleuterion e la monetazione, che preservò le sue prerogative elleniche.

Breve parentesi fu aperta nel 332 a.C., quando Alessandro il Molosso, re dell'Epiro - giunto in Italia su richiesta di Taranto in difesa contro Bruzi e Lucani - dopo aver riconquistato Eraclea, Thurii, Cosentia, giunse a Paistom. Qui si scontrò con i Lucani, sconfiggendoli e costringendoli a cedergli degli ostaggi. Ma il sogno del Molosso di conquistare l'Italia meridionale ebbe breve durata: la parentesi si chiuse nel 331 a.C., con la sua morte in battaglia presso Pandosia. Paistom ritornò così sotto il dominio lucano.

Tomba Andriuolo

L’arrivo di una nuova elite

Splendide armature e tombe dipinte accolgono i resti del popolo che si era impadronito di Paestum nel corso del V sec. a.C. 

Chi sono questi nuovi abitanti? Nelle fonti sono conosciuti con il nome di Lucani, guerrieri provenienti dall’entroterra montuoso e selvaggio, dove abitavano lupi ed orsi, e arruolati, forse, come mercenari. Questa popolazione, in un momento a noi ignoto, arriva a impadronirsi della città, cambiandole il nome da Poseidonia a Paistom, ma mostrando un profondo rispetto per l’estensione e la funzione originaria degli spazi religiosi e politici creati dai coloni greci al loro arrivo. Infatti, tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C., l’area urbana non subisce modifiche importanti: nel cuore politico della città greca (“agorà”), la tomba dell’eroe fondatore (“heroon”) costituisce ancora il punto di aggregazione cittadino in cui praticare un culto pubblico, mentre l’edificio circolare per le riunioni (“ekklesiasterion”) viene utilizzato con la stessa funzione anche dai Lucani.

Anche gli spazi sacri della città continuano a vivere sotto il segno delle divinità greche, almeno secondo quanto testimoniato dai numerosi ritrovamenti di statuette di terracotta e vasi (ex-voto). Accanto a iscrizioni scritte in Osco, la lingua parlata dai Lucani, continuava l’uso della lingua greca. Dobbiamo immaginare una comunità mista nella quale si mescolavano tradizioni e idee.

Paestum: età romana

Nel 273 a.C. Roma sottrasse Paistom alla confederazione lucana, vi insediò una colonia di diritto latino e cambiò il nome della città in Paestum. I rapporti tra Paestum e Roma furono sempre molto stretti: i pestani erano socii navales dei Romani, alleati che in caso di bisogno dovevano fornire navi e marinai. Le imbarcazioni che Paestum e la non lontana Velia fornirono ai Romani dovettero probabilmente avere un peso rilevante durante la Prima Guerra Punica. Durante la Seconda Guerra Punica Paestum rimase fedele alleata di Roma: dopo la battaglia di Canne, addirittura offrì a Roma tutte le patere d'oro conservate nei suoi templi. La generosa offerta fu rifiutata dall'Urbe, che però non disdegnò, invece, le navi cariche di grano grazie alle quali i Romani assediati da Annibale entro le mura di Taranto poterono resistere. Come ricompensa della sua fedeltà, a Paestum fu permesso di battere moneta propria, in bronzo, fino ai tempi di Tiberio: tale conio si riconosce per la sigla "PSSC" (Paesti Signatum Senatus Consulto).

Sotto il dominio romano vennero realizzate importanti opere pubbliche, che mutano il volto dell'antica polis greca: il Foro andò a sostituire l'enorme spazio dell'agorà e ridusse l'area del santuario meridionale; il cosiddetto "Tempio della Pace", probabilmente il Capitolium; il santuario della Fortuna Virile; l'anfiteatro. Anche l'edilizia privata rispecchia il benessere di cui Paestum dovette godere in tale periodo, benché fossero state realizzate due importanti arterie di comunicazione interne, la via Appia e la Via Popilia, che di fatto tagliavano la città fuori dalle grandi rotte commerciali: la prima collegando Roma direttamente all'Adriatico e di qui all'Oriente, la seconda attraversando la Magna Grecia lungo un percorso lontano dalla costa.

La città conobbe un fenomeno di cristianizzazione relativamente precoce: sono infatti documentati martirii al tempo di Diocleziano. Nel 370 d.C. un pestàno, Gavinio, vi portò il corpo dell'apostolo San Matteo, poi trasferito a Capaccio Vecchio ed infine a Salerno.


Un cambiamento radicale

Con la trasformazione della città in una colonia latina, dopo le guerre con Roma nel 273 a. C., Paestum subì numerose trasformazioni urbanistiche. Il Foro venne costruito poco dopo, nella parte meridionale di quella che era stata l’antica piazza principale (“agorà”). Con questa operazione si cancellò la memoria della città greca: la tomba dell’eroe fondatore (“heroon”) venne dotata di recinto e seppellita e l’edificio circolare destinato alle assemblee (“ekklesiasterion”) fu ricoperto. I nuovi coloni mantennero i culti della città greca: la continuità del culto di Athena, Minerva per i Romani, sopravvisse come è testimoniato da oggetti in terracotta raffiguranti la dea con lo scudo. Anche il culto di Afrodite, ora Venere, prosegue al di fuori dell’abitato.

A ridosso del Foro sorse un complesso monumentale, dove trovarono spazio edifici: per l’elezione dei magistrati (Comitium) e per amministrare la giustizia e conservare gli archivi (Curia); non poteva mancare, il Carcere. Sorsero anche l’Anfiteatro, tagliato in due dall’ex Strada Statale 18 oggi isola pedonale, visibile solo per la sua metà occidentale, e il Campus, lo spazio dove si esercitava lo sport, dotato anche di una piscina. All’interno della piscina, forse, era portata in processione la statua di Venere Verticordia (“che apre i cuori”) durante la festa in suo onore. Pare che in tale occasione avveniva un bagno collettivo delle donne-cittadine, spose e nubili, in età fertile.

Il tramonto

Il geografo Strabone riporta che Paestum era resa insalubre da un fiume che scorreva poco distante e che si spandeva fino a creare una palude. Si tratta del Salso, identificato con Capodifiume, corso d'acqua che tuttora fluisce a ridosso delle mura meridionali, dove, in corrispondenza di Porta Giustizia, è scavalcato da un ponticello databile al IV secolo a.C. Probabilmente dovette iniziare ad impaludarsi l'area circostante la parte sud-occidentale dell'insediamento, in quanto il fiume non riusciva più a defluire normalmente a causa del progressivo insabbiamento della foce e del lido che doveva trovarsi non distante da Porta Marina. È possibile notare come i pestani cercassero di correre ai ripari e difendersi da questa calamità, innalzando i livelli delle strade, sopraelevando le soglie delle case, realizzando opere di canalizzazione a quote sempre maggiori. Caratteristica delle acque del Salso, ricordata da Strabone, era quella di pietrificare in breve tempo qualsiasi cosa, essendo ricchissime di calcare.

L'impaludamento della città fece sì che essa si contraesse progressivamente, ritirandosi man mano verso il punto più alto, intorno al Tempio di Cerere, dove è attestato l'ultimo nucleo abitativo. Tagliata fuori dalle direttrici commerciali, insabbiatosi il suo porto, la vita dell'antica polis dovette ridursi a pura sussistenza. Con la crisi della religione pagana, poco lontano dal Tempio di Cerere sorse una basilica cristiana (chiesa dell'Annunziata), mentre pochi anni dopo lo stesso tempio venne trasformato in chiesa. Un interessante caso di sincretismo religioso si riscontra nell'iconografia della Vergine venerata nell'area pestana: uno dei simboli della Hera poseidoniate, la melagrana, emblema di fertilità e ricchezza, passò alla Madonna, che prese l'epiteto di Madonna del Granato.

Sebbene fosse divenuta sede vescovile almeno a partire dal V secolo d.C., nell'VIII secolo o IX secolo d.C. Paestum venne definitivamente abbandonata dagli abitanti che si rifugiarono sui monti vicini: il nuovo insediamento prese nome dalle sorgenti del Salso, Caput Aquae appunto, dal quale probabilmente deriva il toponimo Capaccio. Qui trovarono scampo dalla malaria e dalle incursioni saracene, portando con sé il culto di Santa Maria del Granato, tuttora venerata nel santuario della Madonna del Granato.

Nell'XI secolo Ruggero il Normanno avviò un'operazione di spoliazione dei materiali dei templi di Paestum, mentre Roberto il Guiscardo depredò gli edifici abbandonati della città per ricavarne marmi e sculture da impiegare nella costruzione del Duomo di Salerno.

Riscoperta e scavi

Con l'abbandono di Paestum, dell'antica città rimase solo un vago ricordo. In epoca rinascimentale diversi scrittori e poeti citarono Paestum, pur ignorandone l'esatta ubicazione, ponendola ad Agropoli o addirittura a Policastro: si trattava soprattutto di citazioni di Virgilio, Ovidio e Properzio, sulla bellezza ed il profumo delle rose pestane che fiorivano due volte in un anno. Nel XVI secolo il sito iniziò a conoscere una nuova fase di vita, con la formazione di un minuscolo centro imperniato sulla chiesa dell'Annunziata. Soltanto agli inizi del Settecento, però, si riscontrano accenni eruditi, in opere descrittive del Regno di Napoli, a tre "teatri" o "anfiteatri" posti a poca distanza dal fiume Sele. Intorno alla metà del XVII secolo, Carlo di Borbone fece costruire l'attuale SS18, che tranciò l'anfiteatro in due parti, sancendo così la definitiva riscoperta della città antica. Vennero realizzati e pubblicati i primi rilievi, incisioni e stampe che ritraevano i templi ed i luoghi, cui si aggiunsero disegni e schizzi degli ammirati visitatori che andavano via via aumentando. Divenne ben presto una tappa obbligata del Grand Tour.

Celebri sono le splendide tavole del Piranesi (1778), del Paoli (1784), del Saint Non (1786). Lo storico dell'arte Winckelmann visitò Paestum nel maggio del 1758 e l'incontro con i templi dorici pestani fu decisivo per la sua interpretazione dell'arte greca come origine dell'arte occidentale; Goethe, che fu a Paestum il 24 marzo del 1787, riconobbe nelle forme imponenti dei templi pestani la confutazione storica del paradigma ideale di una architettura dorica snella ed elegante.

A tale diffuso interesse non seguirono però campagne di ricerche e di scavi, a causa del banco di calcare formatosi nel corso dei millenni per precipitazione dalle acque del Salso: coprendo ogni cosa, aveva convinto gli studiosi e gli archeologi che della città antica, oltre ai templi, non si fosse conservato nulla. Fu solamente agli inizi del Novecento che, riconoscendo nel banco una formazione recente, furono intrapresi i primi scavi: tra il 1907 e 1914 indagini archeologiche, guidate dallo Spinazzola, interessarono l'area della "Basilica" spingendosi in direzione del Foro; tra il 1925 ed il 1938 si completarono gli scavi del Foro - con l'individuazione del cosiddetto "Tempio della Pace", del comitium, della via di Porta Marina, e dell'anfiteatro - e si intensificarono le ricerche intorno al Tempio di Cerere; venne dunque completato lo scavo delle mura, in parte restaurate con criteri discutibili, e vennero individuate le cosiddette Porta Marina e Porta Giustizia.

Il 9 settembre 1943 Paestum fu interessata, insieme alla località Laura, dalle attività marine delle forze alleate, a seguito dello sbarco a Salerno. Dopo la II Guerra Mondiale gli scavi sistematici della città ebbero forte impulso: negli Anni Cinquanta si approfondirono le indagini delle aree intorno ai templi, portando al recupero delle stipi votive della "Basilica" e del "Tempio di Nettuno"; il "Tempio di Cerere" venne liberato dalle superfetazioni più tarde; nel luglio del 1954 si scoprì il sacello sotterraneo. Più recente fu l'individuazione delle insulae ad ovest della Via Sacra, consentendo di comprendere alcuni elementi dell'abitato della città antica, del suo impianto urbanistico e del suo sviluppo edilizio.

Tra la fine degli Anni Sessanta e l'inizio degli Anni Settanta, vennero scavate sistematicamente le numerose e ricchissime necropoli di Paestum, permettendo il recupero non solo di opere straordinarie e pressoché uniche, come la Tomba del Tuffatore, ma anche dei ricchi corredi funerari con le splendide ceramiche di produzione locale, opera di artisti rinomati come Assteas, Python ed il cosiddetto Pittore di Afrodite. A partire dal 1988, grazie a finanziamenti erogati nell'ambito del progetto F.I.O. (Fondi per l'Investimento e l'Occupazione) e ai successivi fondi resi disponibili dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali sui proventi del gioco del Lotto, a quelli stanziati dal Piano Pluriennale per l’Archeologia (2000-2002) e, infine, alle risorse comunitarie del Programma Operativo Regionale (P.O.R. Campania 2000-2006), la Soprintendenza ha potuto attivare un piano organico di interventi di scavo, restauro e messa in valore dei monumenti della città antica 

Area archeologica

La cinta muraria

Paestum è circondata da una cinta muraria quasi totalmente conservata, con un perimetro poligonale che si sviluppa per circa 4,75 km, seguendo l'andamento del banco di travertino sul quale sorge la città. È costituita da una muratura a doppia cortina di grandi blocchi squadrati, riempita al centro con terra ed intervallata da 28 torri a pianta quadrata e circolare, quasi tutte ridotte a ruderi.

In corrispondenza dei punti cardinali si aprono le quattro porte principali d'accesso; vi sono inoltre una serie di ben 47 aperture minori, le posterule, funzionali sia per l'accesso in città sia per l'organizzazione della difesa:

La porta Sirena sul lato Est

Via Sacra e quartieri di abitazione

La Via Sacra, utilizzata anche durante le processioni religiose, venne riportata alla luce nel 1907. Larga 9 metri, si presenta lastricata da grossi blocchi di calcare - alcuni recanti il solco lasciato dal passaggio delle ruote dei carri - e munita di marciapiedi sopraelevati; il lastricato romano ricalca il precedente tracciato di età greca. Su entrambi i lati, lì dove non vi siano aree pubbliche o cultuali, si estendono i quartieri abitativi della città, non ancora indagati nella loro interezza e complessità. La parte scavata presenta grandi strutture signorili, sovrapposte a più antiche costruzioni. 

Il Foro

L'area del Foro, di forma rettangolare, venne sistemata dopo l'insediamento della colonia latina, ridimensionando il precedente spazio pubblico di età greca, l'agorà.

La piazza romana si presenta fiancheggiata da vari edifici pubblici e religiosi e botteghe e cinto su tre lati almeno da un porticato su un piano leggermente rialzato. Sul lato meridionale sorge un edificio quadrato e absidato, sorto su una precedente costruzione greca, forse una stoà: della fase di età imperiale si conservano quattro basi marmoree di colonne poste intorno ad una struttura ottagonale, cosa che ha fatto identificare il complesso con un macellum. Segue un edificio rettangolare comunicante con il precedente, con semicolonne addossate alle pareti e un'esedra: si pensa possa trattarsi della curia. Sotto il suo muro meridionale sono i resti di un tempio italico di età romana repubblicana. Un'altra sala rettangolare rappresenta i resti delle Terme, parzialmente scavate e ricostruite; una piccola costruzione con tre podi sul muro di fondo invece era probabilmente il lararium cittadino.

Sul lato nord del Foro si trova il cosiddetto "Tempio Italico", probabilmente il Capitolium della città romana. Si tratta di un tempio esastilo, su un alto podio, preceduto da un'ampia gradinata con un semplice altare rettangolare. Il lato orientale del tempio si innesta su un edificio a gradinate in cui si riconosce il comitium: l'area centrale è accessibile attraverso corridoi a volta sia dal Foro, dove la facciata fungeva da suggestum (podio per gli oratori), sia da oriente.

Ancora ad est si trova una piccola costruzione greca, rettangolare, in muratura, probabilmente l'erario, sede del tesoro della città. Dietro sorge l’anfiteatro, esternamente in laterizio, tagliato in due dalla vecchia SS18.

Altre aree

L’agorà, ossia la piazza principale della città greca, era il suo cuore pulsante. Il lato sud di questo spazio aperto, in età romana, fu prescelto per ospitare il Foro.

Sull’agorà furono realizzati due monumenti simbolici dell’immagine politica della città. Il primo, definito “heroon”, è una struttura a camera parzialmente scavata nella roccia intorno al 520 a. C. e costruita in onore del mitico eroe fondatore della colonia. L’edificio fu rispettato dai Lucani, mentre i Romani, al loro arrivo, realizzarono un recinto rettangolare, oggi visibile, e lo ricoprirono di terra ponendo fine al culto. Al suo interno è stato ritrovato un corredo eccezionale, conservato all’interno del Museo Archeologico.

Il secondo edificio, l’ekklesiasterion, di forma circolare, fu realizzato intorno al 480 a. C. per ospitare i cittadini maschi che si riunivano per discutere di questioni politiche.

Con la trasformazione della città in una colonia latina, dopo le guerre con Roma nel 273 a. C., Paestum subì numerose trasformazioni urbanistiche. Il Foro venne costruito poco dopo, nella parte meridionale di quella che era stata l’antica piazza principale (“agorà”). Con questa operazione si cancellò la memoria della città greca: la tomba dell’eroe fondatore (“heroon”) venne dotata di recinto e seppellita e l’edificio circolare destinato alle assemblee (“ekklesiasterion”) fu ricoperto.

I nuovi coloni mantennero i culti della città greca: la continuità del culto di Athena, Minerva per i Romani, sopravvisse come è testimoniato da oggetti in terracotta raffiguranti la dea con lo scudo. Anche il culto di Afrodite, ora Venere, prosegue al di fuori dell’abitato.

A ridosso del Foro sorse un complesso monumentale, dove trovarono spazio edifici: per l’elezione dei magistrati (Comitium) e per amministrare la giustizia e conservare gli archivi (Curia); non poteva mancare, il Carcere.

Sorsero anche l’Anfiteatro, tagliato in due dall’ex Strada Statale 18 oggi isola pedonale, visibile solo per la sua metà occidentale, e il Campus, lo spazio dove si esercitava lo sport, dotato anche di una piscina.

All’interno della piscina, forse, era portata in processione la statua di Venere Verticordia (“che apre i cuori”) durante la festa in suo onore. Pare che in tale occasione avveniva un bagno collettivo delle donne-cittadine, spose e nubili, in età fertile.

Heroon

Piscina

Anfiteatro

Ekklesiasterion

Tempio di Atena

Il tempio di Atena o tempio di Cerere (circa 500 a.C.) è un tempio greco che si trova a Paestum, nel comune di Capaccio Paestum in provincia di Salerno, costruito nel Santuario settentrionale, in posizione diametralmente opposta rispetto al Santuario meridionale, dove si ergono il tempio di Nettuno e la Basilica. 

Realizzato su un rilievo artificiale del terreno, sul precedente santuario distrutto probabilmente da un incendio, presenta in facciata un alto frontone e un fregio dorico, ornato da metope incassate nell'arenaria, su colonne doriche lievemente slanciate. La struttura è più semplice di quella dei due templi dedicati ad Era (detti "tempio di Nettuno" e "Basilica"): presenta il pronao e la cella ma è privo di adyton, ovvero la camera del tesoro sul retro della cella.

Concepito seguendo un innovativo schema di proporzioni equilibrate, che si traducono nel rapporto di 6 colonne frontali e 13 laterali di uguale dimensione e forma, il santuario presentava una fastosa cromatura.

L'interno dell'ampio pronao presentava sei colonne in stile ionico, di cui quattro frontali e due laterali, di cui restano soltanto le basi e due capitelli; questi ultimi, come nel caso della "Basilica", nascono da un collarino ornato. Sembra essere il primo esempio della presenza dei due ordini, dorico e ionico, nello stesso edificio, non solo nel colonnato ma anche nella trabeazione e nel coronamento del tempio.

Della profonda cella destinata ad accogliere la statua della dea non rimane quasi più nulla: è visibile solo il pavimento sopraelevato di circa 1 metro e le tracce di scale laterali che portavano probabilmente al tetto.

Durante lo scavo in profondità del 1937, a cura di Amedeo Maiuri, sono venute alla luce delle terrecotte architettoniche che hanno permesso di ricostruire il tetto dell'edificio del periodo arcaico, uno dei più antichi di Poseidonia.

Tradizionalmente il tempio era stato attribuito a Cerere, ma in seguito al ritrovamento di numerose statuette in terracotta che raffigurano Atena, si propende per una dedica a questa divinità.

In epoca tardo antica, intorno all'VIII secolo, la struttura venne adibita a chiesa: il santuario venne chiuso con mura fra le colonne, le pareti della cella furono abbattute, l'ambulacro a Sud fu utilizzato per le sepolture. Tali strutture vennero eliminate durate le campagne di scavo degli anni Quaranta del Novecento.


È l’unico tempio di cui sappiamo con certezza a quale divinità fosse dedicato: Atena, la dea dell’artigianato e della guerra.

Posizionato sul punto più alto della città, a nord degli spazi pubblici, il tempio della dea protettrice e guerriera dominava l’area. Già la prima generazione di coloni costruì qui un piccolo edificio per la dea (c.d. “oikos”). Intorno al 500 a.C., si realizzò poi il monumentale tempio che si è conservato fino alla cornice del tetto. La parte interna (“cella”), che è elevata rispetto al colonnato circostante, era accessibile attraverso un’ampia anticamera (“pronaos”) decorata con colonne ioniche.

Come funzionava un tempio greco?

A est del tempio di Atena (sul lato verso la strada moderna) si vede un enorme altare di pietra. Qui si sacrificavano animali nell’ambito di grandi feste per la dea, accompagnati da musica e rituali di vario tipo.

Le sacerdotesse e i sacerdoti erano cittadini che per un determinato periodo assumevano questa carica, non esisteva una casta sacerdotale.

Mentre il culto si svolgeva all’aperto intorno all’altare, il tempio era considerato la  casa della divinità, rappresentata da una statua posizionata nella cella da dove “guardava” i sacrifici che avvenivano fuori.

Tempio di Nettuno 

Il Tempio cosiddetto di Nettuno (detto anche Tempio di Poseidone) è il tempio più grande dell'antica polis di Poseidonia (nota con il nome romano di Pæstum), costruito intorno alla metà del V secolo a.C., epoca di maggiore fioritura del centro. Si erge nel santuario meridionale urbano, poco a nord della c.d. Basilica, disposto parallelamente a questa. La cella, all'interno della quale era custodita l'immagine della divinità titolare del tempio, è divisa in tre navate da due file di due ordini sovrapposti di sette colonne doriche, caratterizzati da un ininterrotto assottigliamento dei fusti dal basso verso l'alto.

Oggi si presenta con un'architettura straordinariamente integra, che lo rende uno dei templi greci meglio conservati in assoluto. L'eccellente stato di conservazione, che caratterizza tutti e tre i templi greci di Paestum, è certamente dovuto anche allo stato di secolare abbandono del sito, verificatosi attorno al IX sec. d.C. successivamente all'impaludamento e all'arrivo della malaria.

Descrizione

Il tempio è un imponente periptero esastilo (con sei colonne sulle due fronti) di ordine dorico, con una peristasi di 6x14 colonne che si eleva su un crepidoma di tre gradini; le misure dello stilobate sono di 24,30 m e 60,00 m. L'edificio è orientato verso est, in posizione praticamente parallela agli altri due templi greci di Poseidonia. È fronteggiato da due altari, di cui il più distante, venuto alla luce solamente durante gli scavi condotti nella metà del secolo scorso da P.C. Sestieri, è quello greco, coevo alla edificazione del tempio; l'altro è invece di epoca romana.

Spazi interni

L'interno è costituito da un naos (cella) del tipo in doppio antis, dotato di pronao e opistodomo simmetrici, entrambi incorniciati da due colonne (distili), allineate con le due centrali delle fronti, alle quali corrispondono due colonnati che attraversano la cella, dividendola in tre navate. Questi colonnati interni sono composti da sette colonne doriche ciascuno, disposte su due ordini sovrapposti, caratterizzati a un ininterrotto assottigliamento del fusto dal basso verso l'alto. Immediatamente dopo l'ingresso della cella, sopraelevata di 0,50 m rispetto al piano dello stilobate, vi erano, ai lati, due vani: solamente in quello a destra venne costruita una scala in pietra che conduceva al soffitto e della quale è conservato un elemento.

La pavimentazione della cella è composta da una successione di tre lastre litiche rettangolari affiancate: solamente all'altezza della quinta colonna dell'ordine inferiore le lastre sono due, ed è presumibile che questa deviazione servisse a marcare il limite oltre il quale, nell'intimità della cella, era posizionata l'immagine di culto.

Particolarità costruttive

Stile

Il tempio, appartenente al periodo cosiddetto severo dell'arte greca, si caratterizza per la grandiosa imponenza degli elementi architettonici, che gli conferiscono un aspetto straordinariamente maestoso. Esso svolse un ruolo decisivo nella riscoperta dell'architettura greca accaduta, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, nel contesto dei viaggi del Grand Tour, non solo per lo studio delle origini dell'architettura dorica e la verifica sperimentale delle teorie architettoniche ma anche come modello capace di ispirare future progettazioni.

Il tempio presenta delle analogie stilistico-formali con il celebre tempio di Zeus ad Olimpia, edificato nello stesso periodo e considerabile il vero paradigma dell'architettura templare dorica; queste analogie ne hanno consentito la datazione, visto che l'anno di ultimazione del grande tempio olimpico è ricavabile per via storiografica. Da esso però si distacca, oltre che per lo schema planimetrico (6 x 14 colonne invece di 6 x 13), a causa della assenza completa di decorazioni scultoree nelle metope e nei frontoni, e del differente dimensionamento proporzionale, governato da rapporti di più difficile individuazione rispetto a quelli, di più semplice lettura, espressi nell'altro tempio.


Colonnati

Il numero pari di colonne sui fianchi, quattordici, rappresenta una deviazione rispetto alla disposizione canonica 6 x 13, affermatasi nell'architettura della madrepatria, e che culminò nel coevo tempio di Zeus ad Olimpia, rispetto al quale l'esastilo classico di Poseidonia è in proporzione più allungato. Lo schema 6 x 14, ancora di ispirazione arcaica, era caratteristico della tradizione architettonica siceliota, dove si era diffuso nel periodo immediatamente successivo al 480 a.C., quando, nella scia della vittoria dei Greci contro i Cartaginesi nella battaglia di Himera, la costruzione di grandi edifici templari ricevette un forte impulso nelle principali colonie siceliote.

La presenza di colonnati all'interno della cella, sconosciuta agli altri templi greco-occidentali (Magna Grecia e Sicilia), nei quali la cella consiste in una vera e propria sala priva di strutture interne, ricollega invece il tempio di Nettuno alla tradizione architettonica della madrepatria, dove si stava affermando l'impianto planimetrico con una cella attraversata da due colonnati e contenuta tra un pronaos ed un opistodomo.

Tempio c.d. di Nettuno. Fronte est vista dall'altare greco. 

La mole delle colonne

Ad imporsi all'osservatore, soprattutto nella vista frontale, è innanzitutto la mole delle colonne esterne, alte 8.88 m  e inusualmente massicce: quelle della fronte, più spesse rispetto a quelle dei fianchi, hanno infatti un diametro di oltre 2.09 m alla base e di ca. 1,55 m alla sommità. La percezione della voluminosità dei fusti delle colonne è certamente acuita dalle proporzioni volutamente poco slanciate, espresse nel rapporto di "appena" 1:4,21 tra il diametro alla base e l'altezza. La lieve entasi applicata ai fusti delle colonne, appena visibile, contrasta con quella, straordinariamente pronunciata, della vicina Basilica.

Probabilmente per mitigare la sensazione ottica di pesantezza dei colonnati, le imponenti colonne esterne presentano un accorgimento, quasi privo di corrispondenti nell'architettura dorica: il notevole infittimento delle scanalature verticali, che dalle canoniche venti vengono incrementate fino al numero di ventiquattro. All'interno il numero delle scanalature subisce un decremento progressivo di quattro unità: quelle delle ordine inferiore passano a venti, per divenire sedici nell'ordine superiore.

Le colonne in antis del pronao e dell'opistodomo, che precedono e seguono la cella, pur essendo posizionate su di un piano sopraelevato di 0,50 m rispetto a quello dello stilobate sul quale si ergono le colonne esterne, sono dimensionalmente identiche a quelle delle fronti (con la conseguenza di un accorciamento dell'altezza della trabeazione dei due porticati interni rispetto a quella della peristasi). L'esatta ripetizione, sul piano interno sopraelevato, delle colonne frontali esterne, apparentemente incomprensibile, trova una spiegazione coerente nella volontà di enfatizzare la fronte della cella, in quanto accesso al luogo più intimo del tempio.

L'elliticità della sezione delle colonne angolari, asserita per la prima volta da F. Krauss, è stata definitivamente smentita, in seguito ad accurati rilievi, da D. Mertens, che ha dimostrato la regolarità della loro forma.


La correzione ottica delle concavità

Allo stilobate è stata conferita una lieve convessità finalizzata a realizzare una piccola correzione ottica, secondo un noto procedimento architettonico, tipico di molte realizzazioni templari, tra cui il Partenone, che in ambiente magno-greco e siceliota troverà un importante riscontro nel più tardo esempio di Segesta.


Soluzione del conflitto angolare

Uno dei problemi che affliggeva l'architettura templare dorica di epoca classica fu il conflitto angolare dell'ordine dorico, determinato dalla impossibilità - causata dal notevole spessore dell'architrave in strutture litiche di così monumentali dimensioni - di collocare il triglifo angolare simultaneamente all'estremità dell'angolo e in posizione assiale sopra la sottostante colonna; il posizionamento del triglifo all'estremità del fregio implicherebbe infatti l'allungamento della metopa angolare e, dunque, l'impossibilità di trasmettere al fregio l'ordine realizzato nel sottostante colonnato. La soluzione più avanzata di questo problema consiste nella contrazione angolare, ossia nella combinazione tra lo spostamento dell'ultimo triglifo all'angolo del fregio ed il corrispondente accorciamento dell'ultimo interasse (distanza tra gli assi di due colonne adiacenti), allo scopo di evitare l'allungamento della metopa angolare.

Nel tempio di Nettuno questa contrazione, singola sul lato breve, è doppia sui lati lunghi, dove ad essere accorciati sono, su ciascuna delle due estremità, gli ultimi due interassi. La contrazione angolare sulla fronte è infatti di ca. 17,5 cm (interasse angolare di 4,30 m invece dei 4,475 m degli interassi "normali"); sui lati lunghi, la diminuzione è, rispettivamente, di ca. 17 cm e 28 cm (interassi, negli ultimi due intercolumni, rispettivamente di ca. 4,36 m e 4,22 m invece dei 4,50 m degli interassi "normali").


Attribuzione cultuale

La denominazione corrente di Tempio di Nettuno risente del retaggio delle prime entusiastiche e fantasiose attribuzioni erudite nate all'epoca della riscoperta di Paestum, avvenuta nella seconda metà del XVIII secolo, sulla base della convinzione che il tempio più grande di Poseidonia dovesse essere dedicato al dio protettore della città, Nettuno-Poseidon.

A causa dell'assenza di fonti scritte e della mancanza di dati archeologici risolutivi, l'attribuzione cultuale dell'edificio è problematica. Tre sono le ipotesi in campo per la titolarità del tempio: Hera, Zeus, Apollo.

La prima ipotesi, sostenuta in particolare da Pellegrino Claudio Sestieri, si basa su materiale votivo dedicato ad Hera ritrovato nei pressi del tempio durante gli scavi condotti dall'archeologo attorno alla metà del secolo scorso, ma che ad una analisi più attenta appare di incerta riferibilità all'edificio templare. La seconda fa leva sul ritrovamento, nelle vicinanze del tempio, di una statua arcaica di Zeus (di epoca anteriore alla costruzione del tempio ed ora esposta al Museo Archeologico Nazionale di Paestum) in frammenti e sull'attestazione di culti dedicati al dio; anche in questo caso, la riferibilità di questa statua ad un precursore arcaico del tempio classico, che avrebbe dunque ereditato la titolarità di Zeus, è priva di prove. La terza ipotesi si fonda sull'esistenza, nel santuario meridionale, di culti salutiferi dedicati ad Apollo, dio della medicina.

Basilica di Paestum

La Basilica (detta anche tempio di Hera) si trova nel sito archeologico di Poseidonia, città della Magna Grecia ribattezzata dai Romani Paestum. È ubicato nel santuario meridionale della città, dove si erge, parallelamente e pressoché allineato sul lato orientale, a breve distanza dal posteriore tempio di Nettuno.

Sebbene siano andate completamente distrutte le parti superiori della trabeazione, nonché le strutture murarie del naos (la cella) ed ampissime porzioni della pavimentazione, lo stato di conservazione è da considerarsi eccellente. La Basilica di Paestum è infatti l'unico tempio greco di epoca arcaica in cui la peristasi, qui composta da 50 colonne, è conservata integralmente.

Storia

Il tempio fu edificato a partire dalla metà del VI secolo a.C., ma la sua costruzione dovette terminare solamente nell'ultimo decennio. Come lasciano ipotizzare i materiali votivi con dedica alla dea ritrovati nei suoi dintorni, il tempio era probabilmente dedicato ad Era, sposa di Zeus e principale divinità venerata a Poseidonia, l'importanza della quale è attestata dall'Heraion alla foce del Sele, il grande santuario extraurbano interamente dedicato alla dea, la cui costruzione fu avviata simultaneamente alla fondazione della città.

La denominazione "Basilica", con la quale il tempio è più noto, gli venne attribuita nella seconda metà del XVIII secolo, quando la cultura architettonica neoclassica cominciò ad interessarsi a Paestum. La totale sparizione dei timpani e di gran parte della trabeazione, assieme all'anomalo numero dispari dei colonne sulla fronte, rese incerta l'identificazione funzionale, come tempio, dell'edificio; questo, interpretato come "porticato" oppure come "ginnasio o collegio", venne chiamato basilica, nel significato, proprio del termine romano, di struttura porticata adibita a sede di tribunale ed alle assemblee dei cittadini.

Struttura planimetrica

È un tempio periptero ennastilo (cioè con nove colonne sulle fronte) con diciotto colonne sui lati lunghi. ll rettangolo dello stilobate misura 24,50 x 54,24 m. L'edificio è orientato verso est come il vicino tempio di Nettuno, assieme al quale determina il grandioso aspetto monumentale del santuario meridionale di Poseidonia. Un grande altare, riportato alla luce durante gli scavi condotti da Vittorio Spinazzola agli inizi del secolo scorso, fronteggia ad est il tempio, a 29,50 m di distanza, in posizione perfettamente parallela alla fronte templare e simmetrica rispetto all'asse dell'antistante edificio.

Il semplice rapporto proporzionale 1:2 si esprime dunque non nelle dimensioni lineari del rettangolo del tempio ma nel numero delle colonne (9 x 18). Queste sono intervallate da interassi di misura differente tra le fronti (interasse di ca. 2,86 m) e i fianchi (interasse di ca. 3,10 m). Dall'assenza di contrazione degli interassi angolari per la soluzione del conflitto angolare si deduce che le metope angolari erano allungate rispetto a quelle "normali".

La Basilica ha la particolarità di avere un numero dispari (9) di colonne sulla fronte, come conseguenza della disposizione, lungo l'asse dell'edificio, di un unico colonnato centrale all'interno della cella. La presenza di un colonnato interno in posizione assiale, certamente in funzione di supporto del colmo centrale della copertura a doppio spiovente, rappresenta un sicuro indicatore architettonico dell'arcaicità del tempio. Tale soluzione planimetrica fu poi rifiutata dall'architettura greca del periodo classico (e da ogni stile classicista, nei vari secoli successivi), perché impediva l'accesso e la vista assiale verso il naos, negando un rapporto diretto con la sacralità del tempio.


Spazi Interni

La cella (naos), profonda 9 interassi, era preceduta da un pronao, di 2 interassi di profondità, con tre colonne disposte tra due ante, dalle quali si originano i muri che la chiudevano lungo i lati. Coerentemente con la disposizione di una colonna esterna centrale in posizione assiale, la cella è bipartita da un colonnato interno centrale, formato da 7 colonne, di cui sono conservate le prime tre.

Dietro la cella è ricavato l'adyton, un ambiente chiuso e anch'esso profondo 2 interassi, introdotto in sostituzione dell'opistodomo (il corrispondente simmetrico del pronao sul retro) al termine di ripensamenti progettuali in corso d'opera, rilevati grazie ad indagini sulle fondazioni; queste hanno permesso di accertare tre fasi di progettazione, a conclusione delle quali, oltre alla sostituzione dell'opistodomo con un adyton, il colonnato centrale della cella venne ridotto da otto a sette elementi; è ipotizzabile che la motivazione di questi ripensamenti progettuali risieda in sopraggiunte modifiche alle pratiche di culto, che implicarono l'introduzione di rituali con processioni richiedenti una nuova configurazione degli spazi interni. Il vano dell'adyton, caratteristico dei templi greco-occidentali (Magna Grecia e Sicilia) nel periodo arcaico, era accessibile, attraverso porte che lo collegavano al naos, solo agli addetti al culto. Esso era probabilmente la sede del tesoro del tempio e del simulacro della divinità.


Le colonne. Stile e decorazioni

Decorazioni floreali in rilievo sull'echino della colonna mediana della fronte ovest.

Le colonne, alte ca. 6,48 m, hanno un fusto percorso dalle canoniche 20 scanalature e fortemente rastremato, con un diametro inferiore di ca. 1,45 m ed uno superiore di ca. 0,98 m. L'aspetto delle colonne è determinato innanzitutto dal caratteristico rigonfiamento nella zona mediana dovuto ad un'entasi assai evidente, con una "freccia" di ca. 4,8 cm. L'echino del capitello, come si addice a colonnati di età arcaica, è molto schiacciato ed espanso, e l'abaco molto largo.

Lo stile dorico in cui sono realizzate le colonne della Basilica presenta potenti tendenze decorative, che lo ricollegano a quello diffuso, in epoca arcaica, in altre colonie di fondazione achea; si tratta di uno stile che, sottoposto ad una razionalizzazione formale, ispirerà anche la realizzazione del successivo tempio di Athena, e di cui il tempio di Nettuno, costruito in uno stile dorico oramai "canonico", segnerà a Poseidonia il definito abbandono.

Tre sono i fenomeni decorativi che interessano la Basilica. (1) I collarini di ciascuna colonna sono decorati con foglie baccellate di numero variabile.(2) Su alcune colonne della fronte occidentale le decorazioni interessano addirittura la parte inferiore dell'echino, immediatamente al di sopra degli anuli, sulla quale è scolpita in rilievo una fascia decorativa floreale differente in ciascuna colonna; tra queste spicca, per lo stato di conservazione e la sua bellezza, la decorazione realizzata sul capitello della colonna in posizione centrale, composta da un'alternanza di rosette e fiori di loto. (3) Questo stile decorativo raggiunge il suo culmine con l'ornamento floreale a rilievo (sequenze di fiori di loto e palmette), di cui non esistono altri esempi, che percorre l'intero corpo dell'echino delle sei colonne con capitello in arenaria disposte all'interno (le tre del pronaos e le prime due del colonnato centrale assiale) e all'angolo sud-est della peristasi; vivaci policromie, di cui rimangono tracce (rosso e blu), rivestivano queste decorazioni floreali.


Trabeazione e tetto

Sima della Basilica. Finte grondaie a testa di leone 

Della trabeazione rimangono gli architravi e pochi altri elementi, che però, assieme ad importanti resti della copertura fittile del tetto, ne hanno consentito una ricostruzione quasi completa.

L'ordine delle strutture superiori del tempio, al di sopra degli architravi, si discosta profondamente da quello dorico "canonico" ed è da ricollegare alla tradizione architettonica seguita nelle colonie achee durante il periodo arcaico. Invece del sistema di taenia e regulae sovrastante gli architravi, gli architetti della Basilica disposero una modanatura realizzata in arenaria, della quale rimangono ancora elementi. Questa struttura fungeva da base per il fregio, che nell'ordine dorico "canonico" è invece direttamente collegato al sottostante colonnato. Grazie alle tracce di posizionamento presenti ed al loro andamento è stato infatti possibile arguire l'esistenza di un fregio dorico, costituito dall'usuale alternanza di triglifi, coordinati con gli assi delle colonne ed i centri degli architravi, e metope; è possibile che queste ultime, come quelle provenienti dall'Heraion di Foce Sele, fossero scolpite.

L'alzato era privo di un geison orizzontale. Il suo coronamento non era in pietra ma composto da un rivestimento in terracotta policroma, con finte grondaie a testa di leone, delle quali riemersero numerosi frammenti (alcuni esposti al Museo Archeologico Nazionale di Paestum) durante gli scavi del 1912. I bordi della copertura terminavano con antefisse che, come è stato possibile comprendere grazie ai ritrovamenti, alternavano la forma di palmetta a quella di fiore di loto.

Museo archeologico nazionale di Paestum

Il Museo Archeologico Nazionale di Paestum è un museo ubicato nel comune di Capaccio-Paestum, in provincia di Salerno. Il Museo Archeologico Nazionale di Paestum è uno dei maggiori musei "di sito" in Italia. Le diverse sezioni che lo compongono consentono al visitatore di ripercorrere la storia della città greca, lucana e romana. Dal 2015 in seguito al D.P.C.M. 171/2014 è divenuto Museo statale dotato di autonomia speciale. Nel 2017 scavi e museo di Paestum sono stati il quindicesimo sito statale italiano più visitato, con 441.037 visitatori.

La storia

Realizzato nel 1952 utilizzando parte di un più ampio progetto elaborato nel 1938 dall'architetto M. De Vita, il Museo sorge all'interno della cinta muraria. 

Il nucleo principale fu costruito in funzione della struttura che accoglie la serie di metope arcaiche provenienti dal Santuario di Hera alla foce del Sele, ma ben presto si dimostrò insufficiente a contenere e ad esporre i numerosi oggetti riportati alla luce dai successivi scavi archeologici della città e delle necropoli. Al primo nucleo fu così presto aggiunta una nuova ampia ed illuminata sala progettata dall'architetto E. De Felice il quale predispose anche una serie di nuovi vani che si sviluppano intorno ad un giardino e ampie vetrate che si aprono verso la città e la piana chiusa ad Est dai monti di Capaccio. 

Le grandi scoperte delle numerose tombe dipinte lucane e della Tomba del Tuffatore nel 1968 resero necessaria una nuova sistemazione del percorso museale realizzata da G. De Franciscis e S. Viola.

Il percorso museale

Il museo contiene numerosi reperti provenienti dalla città, dall'Heraion alla foce del Sele e dalle necropoli vicine (necropoli del Gaudo, necropoli di Santa Venera, ...).

Il percorso espositivo si snoda su tre piani suddivisi in sette sezioni:


Fra i materiali esposti spiccano per importanza:

Tomba del Tuffatore

La tomba del Tuffatore è un manufatto dell'arte funeraria della Magna Grecia di rilevante valore storico-artistico, l'unica testimonianza di pittura greca, figurativa e non vascolare, nota. Le pareti del manufatto e la stessa lastra di copertura sono interamente intonacate e decorate con pittura parietale di soggetto figurativo, realizzata con la tecnica dell'affresco.

Descrizione

La tomba prende il nome dalla raffigurazione sulla lastra di copertura. Si tratta di una tomba a cassa, costituita da cinque lastre calcaree in travertino locale che, al momento del ritrovamento, si presentavano fra loro accuratamente interconnesse e stuccate, tanto che non vi era traccia di terra franata all'interno. Il pavimento della cassa era costituito dallo stesso basamento roccioso su cui era realizzata la tomba. Le pitture erano perfettamente conservate, tranne sull'intonaco del lato a sud, che appariva un poco eroso.

Il corredo funerario rinvenuto all'interno della sepoltura era costituito da un'unica lekythos attica a figure nere, due beccucci di ariballi in alabastro per unguenti e alcuni frammenti di un carapace di tartaruga, probabilmente appartenenti alla cassa di risonanza di una lyra. Sebbene i pochi resti dello scheletro si siano polverizzati al momento dell'apertura, la sepoltura viene comunemente attribuita ad un giovane.

Dettaglio della lastra di copertura. 

Rinvenimento e datazione

La tomba del Tuffatore fu rinvenuta il 3 giugno del 1968[4][5], a circa due chilometri a sud di Paestum, in una piccola necropoli di fine VI - inizio V secolo a.C., in località Tempa del prete. La tomba del Tuffatore fu portata alla luce nel corso di sistematiche campagne di scavo condotte da Mario Napoli, a partire dal 1967, volte ad indagare le necropoli pestane.

Gli oggetti di corredo, in particolare la lekythos attica, unitamente alle considerazioni stilistiche, hanno permesso una chiara datazione della tomba al decennio compreso tra il 480 e il 470 a.C.

 Il manufatto si situa quindi nell'epoca aurea dell'arte pestana, in un contesto politico-sociale che aveva visto, meno di vent'anni prima, l'edificazione del tempio di Atena (impropriamente detto di Cerere) e che avrebbe portato, nel lasso di due o tre decenni, al sorgere del più compiuto esempio dell'architettura pestana, il celebre tempio c.d. di Nettuno.

Apparato iconografico

Alcune delle scene rappresentate richiamano una cornice conviviale, interpretando schemi tipici e di ampia diffusione nella coeva ceramica attica a figure rosse. Dieci uomini inghirlandati, adagiati sui tipici letti triclinari (le klinai), sorpresi in pose simposiali, animano le raffigurazioni delle pareti più lunghe. Le mani sono impegnate a sorreggere le kylikes, o ad impugnare strumenti musicali, l'aulos o la lyra.

Musica e conversazione si inframezzano a invocazioni al bere o all'intrattenimento del kottabos. Sulla lastra nord, due ospiti, posate le coppe su un basso tavolino, indugiano in gesti di affetto omosessuale sotto lo sguardo incuriosito di un terzo.

Sulla lastra est, un giovane convitato attinge vino da un grosso cratere inghirlandato, posato su un tavolo festonato, allontanandosi recando con sé una oinochoe.

Sulla lastra sud, un altro convitato, accompagnato dal flauto del suo vicino, si cimenta in un canto, reclina il capo e la mano va a toccarsi la fronte, abbandonandosi al gesto convenzionale dell'estasi; sul lato opposto è raffigurato un convitato che stringe tra le dita un oggetto bianco, interpretato da Mario Napoli come un uovo, probabile rimando a culti orfico-pitagorici.

Sulla lastra ovest, una giovane auletride nuda inaugura un breve corteo scandendo, al suono del suo strumento, l'incedere leggero e danzante (partenza o arrivo?) di un giovane nudo, che, le spalle cinte appena da un leggero drappo azzurro, pare quasi indugiare nell'ampio gesto disteso della mano destra. Chiude il corteo un più maturo uomo barbato, interpretato da Mario Napoli come un paidagogos, ammantato da un chitone ed appoggiato al nodoso bastone da passeggio.

Sulla lastra di copertura vi è infine la celebre scena che ha dato il nome alla sepoltura, un tema raramente utilizzato, ma mai in modo così astratto, dall'arte greca: un giovane nudo in tuffo, sospeso in aria, ha superato una struttura simile ad un trampolino ed è in procinto di entrare in uno specchio d'acqua.

Parete nord 

Parete Est

Parete sud 

Parete nord, particolare del gioco del kottabos 

Parete ovest 

Lastra di copertura 

Significato

Le scene raffigurate sulle lastre laterali non presentano problemi interpretativi, rimandando tutte ad un simposio (con l'eccezione della lastra ovest). L'interpretazione della lastra di copertura, con l'immagine del tuffatore, è invece al centro di una discussione. Quasi tutti gli studiosi concordano nell'attribuire al tuffo un significato non letterale, ma simbolico, quale simbolo del passaggio dalla morte all'aldilà.

La piattaforma da cui si slancia il tuffatore allude forse alle pulai, le mitiche colonne poste da Ercole a segnare il confine del mondo, assurte a simbolo del limite della conoscenza umana. Lo specchio d'acqua, secondo la stessa opinione dello scopritore, con il suo orizzonte curvo e ondulato, rappresenterebbe il mare aperto e ondoso. La posa atletica, così ravvicinata al piedistallo da far sembrare il tuffo un sorvolo, simboleggerebbe il transito verso un mondo di conoscenza: un orizzonte diverso da quella della conoscenza terrena cui un giovane greco accede secondo le convenzioni e le esperienze esemplificate nelle pratiche simposiali: l'abbandono al vino, all'eros, all'arte, sia essa musica, canto o poesia.

Contesto nell'arte greca

La notizia della scoperta della tomba animò l'VIII Convegno tarantino sulla Magna Grecia, dove essa fu presentata poco dopo la scoperta in un clima di speranze ed eccitazione. Da lì la notizia rimbalzò presto, in tutto il mondo, con un'eco vasta e non confinata al solo ambiente delle pubblicazioni scientifiche.

Mario Napoli, fin dal momento della sua scoperta, interpretò i dipinti della tomba come unico esempio rimastoci della grande pittura greca. Tuttavia, questo manufatto rimane di problematica collocazione nel contesto evolutivo dell'arte greca, a causa dell'estraneità, al mondo greco, del costume di dipingere le tombe. Le interpretazioni avanzate dagli altri autori, tengono conto delle possibili influenze etrusche e dell'esistenza di una tradizione locale di tombe dipinte a Paestum.

Possibili influenze etrusche

L'uso di figurazioni nelle sepolture, se sostanzialmente sconosciuto alla Magna Grecia, risulta invece tipico dell'Etruria. L'unicità delle pitture della tomba del Tuffatore sarebbe quindi interpretabile quale frutto dell'influsso degli Etruschi, stanziati a nord del fiume Sele, sulla cultura dei Greci di Poseidonia. 

Anche l'associazione tra temi ultraterreni e contesti conviviali potrebbe risentire di un influsso artistico e cultuale proveniente dal mondo etrusco, fornendo una piena testimonianza della profondità e reciprocità degli scambi culturali e artistici tra le due civiltà sulle due sponde del Sele.

Allo stesso momento è da notare come essa marchi notevoli differenze con le raffigurazioni artistiche dell'arte etrusca. Si confronti ad esempio l'atmosfera sospesa della scena del tuffo, in un contesto astratto e stilizzato, con quella, fortemente naturalistica, che pervade pitture funerarie etrusche come la tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia.

Simposio, Tomba dei Leopardi, 473 a.C. Museo archeologico nazionale di Tarquinia

Tuffatore, Tomba della Caccia e della Pesca, VI secolo a.C. Necropoli dei Monterozzi 

Tradizione locale

Il ritrovamento nei dintorni di Paestum di circa una ventina di tombe dipinte, ma senza scene figurate, di periodo greco databili a cavallo tra la fine del VI e l'inizio V sec. a.C., sembra testimoniare l'esistenza di una tradizione locale che culminerebbe nella tomba del Tuffatore. Tra queste, riveste un'importanza particolare la "Tomba delle Palmette" – rinvenuta nel 1998 nella necropoli di Arcioni appena fuori la cinta muraria nord-occidentale di Paestum e resa fruibile al pubblico a partire dall'ottobre del 2016 –, che presenta una lastra di copertura dipinta con una cornice con palmette agli angoli, analoga a quella del Tuffatore.

La pittura funeraria pestana di IV sec. a.C.

La tomba non costituisce il solo esempio della pittura funeraria figurativa pestana. Circa ottant'anni dopo la sua realizzazione, la città venne conquistata dai Lucani, le cui tombe presentano un ricco ciclo di raffigurazioni. Datate perlopiù a partire dalla metà del IV secolo a.C., alcune di esse sono esposte all'interno del Museo Archeologico Nazionale di Paestum nella sala contigua a quella della Tomba del Tuffatore, o, come nel caso della tomba di Albanella detta della fanciulla offerente, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Ai temi espressi dalla Tomba del Tuffatore si vanno a sostituire corse di bighe e quadrighe, guerrieri a cavallo in partenza per l'ultimo viaggio, cortei echeggianti di lamentazioni femminili, pugilatori insanguinati, cani, cervi, cacciatori, ippogrifi. Sono nuovi soggetti, espressione del cambiamento della classe politica pestana, che restituiscono un mutato clima artistico e storico.

Operazione "Avalanche"

L'8 settembre, una poderosa forza navale alleata puntava minacciosa verso il golfo salernitano. Salerno, quel giorno, era stata colpita dall'ennesimo bombardamento.  Da molte settimane subiva continue incursioni aeree ed era ormai ridotta a un cumulo di rovine.

La gente bivaccava nelle gallerie e nelle cantine, affamata e senza speranza. Ma improvvisamente, alle 19,45, anche fra la popolazione di Salerno giunse la voce del maresciallo Badoglio che annunciava l'armistizio. La guerra era dunque finita?  La gente pensò che fosse così e usci dai rifugi. L'illusione durò poco: la comparsa delle navi all'orizzonte spinse i salernitani a rintanarsi di nuovo.

A bordo delle 463 unità che erano salpate dai porti dell'Algeria e della Sicilia i 100.000 soldati inglesi e i 70.000 americani che componevano il corpo da sbarco affidato al comando del generale americano Mark Clark vivevano le ore di tensione che sempre precedono l'inizio delle operazioni.

Tutti a bordo, compresi gli ufficiali, erano completamente all'oscuro di quanto era accaduto in quei giorni.  Ignoravano che l'armistizio con l'Italia era stato segretamente firmato il 3 settembre, e ignoravano che sarebbe stato reso pubblico entro poche ore.  Erano tutti convinti che lo sbarco avrebbe incontrato la tenace resistenza degli italiani e dei tedeschi.  Ma, improvvisamente, la tensione che regnava a bordo venne infranta da una comunicazione radiofonica.   Alle 18,30, mentre l’operazione "Avalanche” è in pieno svolgimento con i convogli alleati in vista di Salerno (da una settimana la costa campana è sottoposta ad intensi attacchi in preparazione della invasione), da Algeri il gen. Eisenhower comunica la notizia dell’armistizio intervenuto tra gli Alleati e gli italiani. Ecco il testo del breve annuncio:"Qui è il gen. Eisenhower. Il governo italiano si è arreso incondizionatamente a queste forze armate. Le ostilità tra le forze armate delle Nazioni Unite e quelle dell’Italia cessano all’istante. Tutti gli italiani che ci aiuteranno a cacciare il tedesco aggressore dal suolo italiano avranno l’assistenza e l’appoggio delle nazioni alleate”.

Un analogo annuncio viene fatto alla radio italiana alle 19,45 dal capo del governo maresciallo Pietro Badoglio. Il messaggio al popolo italiano cosi' si conclude: “...Esse [le forze armate italiane] però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”.

La notizia, del tutto inattesa, provocò grandi manifestazioni di gioia.  I soldati esultanti ballavano sui ponti.  La guerra con l'Italia era finita!  Nessuno pensava più ai pericoli.  Tutti erano convinti che, invece di una battaglia, a Salerno ci sarebbe stata ad attenderli una folla in festa. 

Alle 3,30 di mattina del 9 settembre  il gen. Mark Clark diede il via all’operazione “Avalanche”.

La 1^ divisione aerotrasportata si impadronì di Taranto senza incontrare resistenza.

Intanto 55.000 uomini delle truppe anglo-americane sbarcarono nel Golfo di Salerno, coperti da una forza navale che disponeva complessivamente di 4 corazzate, 7 portaerei, 11 incrociatori e alcune decine di caccia, oltre ad unità di scorta e minori. I soldati presero terra con relativa facilità e senza contrasti, ma improvvisamente, con loro grande sorpresa, incontrarono la reazione tedesca.

Nelle 48 ore seguite allo sbarco, gli Alleati  riuscirono a travolgere le difese germaniche e a spingersi verso l'interno.  La resistenza tedesca era stata debole, il generale Clark poteva essere soddisfatto.  Il suo ottimismo  forse eccessivo riguardo allo sbarco ora si rafforzava perché gli avvenimenti sembravano giustificarlo.  Le navi potevano tranquillamente scaricare carri armati e automezzi.  I rinforzi riuscivano ad affluire regolarmente sulla spiaggia.

Intanto l'artiglieria tedesca taceva e la Luftwaffe sembrava essere scomparsa.  Proseguendo l'avanzata, gli Alleati occuparono l'aeroporto di Montecorvino e provvidero a riattivare la pista.  La battaglia sembrava ormai vinta.  I tedeschi si ritiravano o si arrendevano. A tre giorni dallo sbarco gli Alleati controllavano una testa di ponte lunga 100 chilometri e profonda 10.  Ma improvvisamente, la mattina dei 12 settembre, la situazione registrò un drammatico mutamento: i tedeschi scatenarono il contrattacco.  Truppe fresche e bene armate attaccarono di sorpresa il settore Nord travolgendo i presidi dei commando britannici.  Poche ore dopo, la controffensiva, condotta con estrema violenza, si estese a tutto l'arco del fronte. Le truppe tedesche giunte di rinforzo erano le divisioni che Kesselring era stato costretto a trattenere a Roma in vista di un secondo sbarco e per superare l'accanita, ma non coordinata resistenza delle truppe italiane a Porta S. Paolo. Ora che si era assicurato il completo controllo della capitale italiana, poteva scaraventarle contro le truppe alleate.

Sotto l'urto delle forze tedesche, l'intero schieramento anglo-americano vacillò. La ritirata fu generale. Molti reparti si sbandarono. Molti prigionieri vennero catturati.  Posizioni strategiche importanti come Battipaglia e Altavilla furono riconquistate. Durante questa controffensiva i tedeschi si sentirono molto vicini alla vittoria. Intanto la situazione si era fatta disperata.  Il generale Clark aveva ormai perduto il suo ottimismo,e insistette per l'invio di rinforzi.  A questo punto, per contrastare l'avanzata tedesca venne deciso l'impiego della divisione paracadutisti Airborne.  Si trattava dei paracadutisti americani che dovevano essere lanciati su Roma.  Rimasti inoperosi all'aeroporto di Licata, essi vennero ora lanciati nelle retrovie per colpire e disorganizzare i movimenti del nemico. Ma neppure l'intervento dei paracadutisti modificò la situazione: i tedeschi continuarono vittoriosamente l'avanzata e le loro avanguardie giunsero in vista del mare.Fu a questo punto che il maresciallo Alexander, comandante in capo delle forze alleate del Mediterraneo, decise di risolvere la drammatica situazione ordinando l'intervento della squadra navale.  Per la prima volta la marina venne impegnata in una battaglia campale. Il 14 settembre una potente squadra da battaglia lasciò Malta diretta verso Salerno.  Ne facevano parte anche le corazzate  Warspite, Valiant, Nelson e Rodneu armate con cannoni da 381 mm.  Contemporaneamente, stormi di bombardieri pesanti furono lanciati sulla costa salernitana a seminare rovina e distruzione nelle retrovie tedesche.

Questo attacco segnò l'inizio della controffensiva alleata.  I danni furono enormi.  Anche per la popolazione civile che da una settimana si trovava costretta a vivere in prima linea.  Ma ai fini della battaglia fu soprattutto decisivo il bombardamento navale.  Spingendosi quasi al limitare della costa, le navi assolsero il compito che normalmente compete alle artiglierie. Il loro tiro era estremamente preciso.  Le loro bordate distrussero ora postazioni tedesche, ora interi centri di abitazioni civili.  Una vera valanga di fuoco si abbatté sul Salernitano.  Grazie a un nuovo sistema di segnalazione, le truppe alleate potevano chiedere direttamente l'appoggio dell'artiglieria navale come se si trattasse di batterie terrestri.  Le postazioni tedesche vennero centrate a una a una.

Due giorni dopo, il 16, Kesselring ordinò alle sue truppe di ritirarsi verso nord «per sottrarsi all'efficace bombardamento da parte delle navi da guerra».  Per gli anglo-americani la via di Napoli era aperta. «Se a Salerno» commenterà Alexander a operazione conclusa «la marina e l'esercito non avessero potuto disporre della superiorità, lo sbarco sarebbe fallito.» Avalanche fu dal punto di vista militare un successo, anche se politicamente e strategicamente non raggiunse gli obiettivi che erano stati prefissati, ossia l'immediata liberazione di Napoli e la rapida avanzata su Roma.  Per liberare Roma occorrerà aspettare circa nove mesi e per percorrere i 54 km che dividono Salerno da Napoli gli Alleati impiegheranno ventidue giorni.

Chiesa dell'Annunziata

Storia

La chiesa della SS. Annunziata risale agli inizi del V secolo d.C. e si trova all'interno del sito archeologico di Paestum, nel comune di Capaccio Paestum in Provincia di Salerno.

La primitiva struttura doveva essere costituita da un'unica aula absidata, preceduta da un quadriportico. Nel XII secolo venne ampliata ripartendola in tre navate tramite due file di colonne di spolio e dandole forme romaniche. Non si sa molto delle fasi più antiche della vita che vi si doveva svolgere d'intorno: prime informazioni le si hanno a partire dal 1500, grazie alle ad limina, relazioni redatte dai vescovi o dai loro preposti, durante i propri spostamenti. Dalle descrizioni si evince che all'epoca l'area versava in uno stato di desolazione e malcostume: molto diffusi, infatti, erano brigantaggio e miseria. Nel 1644 il vescovo Carafa definiva il sito «asperrimus», mentre il vescovo Carlo Francesco Giocoli, nel 1720, utilizzò il termine «disastrosissimo».

Restaurata in parte nel Cinquecento per scongiurarne il crollo, agli inizi del Settecento fu notevolmente modificata dal vescovo Odoardi: avendo riscontrato una chiesa ridotta a stalla e ritrovo di predoni, priva di ogni arredo sacro, egli fece realizzare l'altare maggiore, dedicato all'Annunziata, la cappella di San Michele Arcangelo e quella dell'Addolorata. Il successore di Odoardi, Raimondi, apportò altre migliorie all'edificio di culto e, nel 1760, fece erigere il palazzetto tuttora adiacente alla chiesa.

Nella seconda metà del Novecento un profondo intervento di restauro ha liberato le antichissime colonne dalle superfatuazioni settecentesche, riportando oltretutto la quota di calpestio al livello originario, più basso di quasi due metri. È ora possibile anche ammirare, nell'abside centrale, alcuni frammenti di affreschi dell'XI secolo.

Heraion alla foce del Sele

L'Heraion alla foce del Sele o tempio di Hera Argiva è un antico santuario della Magna Grecia dedicato alla dea Era, situato in origine alla foce del fiume Sele, a circa 9 km dalla città di Paestum, nell'odierno comune di Capaccio Paestum.

Il santuario si trova ora a circa 1,5 km dall'attuale linea di costa, a seguito dell'avanzamento di quest'ultima, rispetto all'antica collocazione, per il deposito dei sedimenti alluvionali portati dal fiume.

L'esistenza del santuario è testimoniata da fonti storiche che, per lungo tempo, sono rimaste prive di alcun riscontro nella realtà. Strabone colloca il santuario di Hera Argiva al confine settentrionale della Lucania, sulla sinistra idrografica del fiume Sele, a 50 stadi dalla città pestana e ne attribuisce la fondazione a Giasone durante la spedizione degli Argonauti. Lo stesso santuario viene collocato da Plinio il Vecchio sulla sponda opposta del fiume. Una simile imprecisione, consueta nell'opera dello scrittore latino, avrà l'effetto di offuscare il dato storico rendendone problematico il ritrovamento dei resti.

Storia

Il santuario fu fondato agli inizi del VI secolo a.C. dai greci provenienti da Sibari e dedicato alla dea Hera Argiva, protettrice della navigazione e della fertilità.

Inizialmente vi si doveva svolgere un culto all'aperto, in un'area sacra dotata di un altare e delimitata da portici, destinati all'accoglienza dei pellegrini.

Alla fine del VI secolo si ebbe la costruzione di un grande tempio, probabilmente ottastilo (con otto colonne sulla facciata) e periptero. Insieme furono costruiti, davanti ad esso, a una certa distanza, due altari monumentali.

Dopo l'arrivo dei Lucani, alla fine del V secolo a.C., si ebbe il momento di massima fioritura del santuario, con la costruzione di nuovi edifici che riutilizzarono i materiali di quelli più antichi: un nuovo portico e, accanto, un edificio per riunioni. Ad una certa distanza venne edificato inoltre un edificio quadrato in cui sono state rinvenuti numerosi pesi da telaio e dove si è ipotizzato che le fanciulle da marito tessessero il peplo per la statua di culto, offerto alla dea con una processione annuale. Qui è stata trovata una statua in marmo di Hera, seduta in trono e con in mano un melograno.

Nel 273 a.C. l'area fu conquistata dai Romani che vi fondarono la colonia di Paestum. L'edificio per la tessitura fu distrutto e costruito un recinto intorno all'area sacra.

Il santuario sopravvisse fino al II secolo d.C., in una progressiva decadenza, finché, anche a seguito all'impaludamento della zona, si perse gradualmente ogni forma di memoria della sua ubicazione.

Il culto di Hera sopravvisse successivamente in forme cristiane con la "Madonna del Granato", il cui culto, nell'omonimo e vicino santuario, riprende la raffigurazione di Hera con il melograno.

Il santuario venne rimesso in luce dagli scavi degli archeologi di Umberto Zanotti Bianco e Paola Zancani Montuoro, tra il 1934 e il 1940.

Ciclo scultoreo delle metope

Negli scavi sono state rinvenute circa settanta metope con raffigurazioni scolpite in arenaria locale.

Circa quaranta appartengono a un ciclo più antico (seconda metà del VI secolo) e dovevano decorare edifici oggi non più riconoscibili. Le metope di questo ciclo raffigurano episodi del mito delle dodici fatiche di Eracle e del ciclo Troiano, ma anche di Giasone e di Oreste. Sono scolpite abbassando il fondo all'esterno della linea di contorno delle figure: in questo modo, la parte in rilievo rimane molto piatta. Questo indicherebbe che la raffigurazione, nei suoi particolari, era probabilmente completata dal colore.

Il ciclo più recente, di circa 30 metope, raffigura invece delle fanciulle danzanti, rese a bassorilievo.

Le metope sono collocate nel Museo archeologico nazionale di Paestum, sorto, nel 1952, proprio attorno a questi ritrovamenti. La loro collocazione museale riprende la presumibile struttura del tempio a cui erano state inizialmente attribuite. Tuttavia occorre dire che né l'interpretazione dei cicli narrativi né la collocazione, trovano concordia unanime tra gli studiosi.

Per Roland Martin le 38 metope del ciclo più antico (seconda metà del VI secolo a.C.) dovevano decorare un Thesauros (cappella votiva), con pianta rettangolare e facciata dorica con due colonne in antis. Il capitello delle colonne doriche, sottolineato alla base dell'echino con due filetti distaccati, contrastava con i capitelli ionici delle ante; questi ultimi, quasi elementi applicati alle estremità del muro, presentano un corpo principale che si svasa per reggere uno spesso abaco decorato con palmette e fiori di loto, mentre la base è sottolineata da un piccolo meandro. Il fregio dorico, privo di funzioni architettoniche, era posto davanti agli elementi in legno che sorreggevano il tetto. I triglifi, fortemente aggettanti come nel Tempio C di Selinunte, sono larghi quasi quanto le metope. Le intaccature visibili nella parte posteriore delle metope mostrano che queste ultime furono inserite tra i triglifi dopo la messa in opera delle travature in legno.

Eracle uccide Alcioneo, dalla Gigantomachia.

Il suicidio di Aiace Telamonio, dal Ciclo Troiano.

I doni votivi

Gli scavi del santuario hanno inoltre restituito una grande quantità di doni votivi (per lo più statuette in terracotta raffiguranti la dea), che dopo qualche tempo venivano ritualmente seppelliti: un primo deposito era stato realizzato nei pressi del tempio ed era costituito da cinque fosse rivestite da lastroni in pietra e con coperchio pure in pietra. Delle tracce di bruciato si riferiscono ai sacrifici offerti all'atto del seppellimento e i materiali depositati vanno dal VI al II secolo a.C.

È stata inoltre rinvenuta una seconda grande fossa, con circa seimila oggetti tra statuette in terracotta e piccoli oggetti in bronzo databili tra il IV e il II secolo a.C. (ma con alcune monete del II secolo d.C., in piena epoca romana imperiale).

Gran parte dei doni votivi sono visibili sul sito stesso del santuario, nel "Museo narrante del santuario di Hera Argiva alla foce del Sele", ospitato in una masseria ristrutturata ("masseria Procuriali")