Giardino della Minerva

Breve Storia del Giardino

Il Giardino della Minerva si trova nel cuore del centro antico di Salerno, in una zona denominata nel Medioevo “Plaium montis”, a metà strada di un ideale percorso che si sviluppa lungo l‘asse degli orti cinti e terrazzati che dalla Villa comunale salgono, intorno al torrente Fusandola, verso il Castello di Arechi.

Il “viridario” fu proprietà della famiglia Silvatico sin dal XII secolo, come testimonia una pergamena conservata nell'archivio della Badia di Cava de’Tirreni. In seguito, nel primo ventennio del 1300, il maestro Matteo Silvatico, vi istituì un Giardino dei semplici, antesignano di tutti i futuri Orti botanici d’Europa.

Dall'opera di Silvatico, intitolata Opus pandectarum medicinae, ricaviamo la prima descrizione del Giardino: «...ed io ho una colocasia, a Salerno, nel mio giardino, presso una fonte cospicua». In questo spazio di straordinario valore culturale, oggi identificabile, appunto, nell’area del Giardino della Minerva, erano coltivate alcune delle piante da cui si ricavavano i princìpi attivi impiegati a scopo terapeutico. Matteo Silvatico vi svolgeva, inoltre, una vera e propria attività didattica per mostrare agli allievi della Scuola Medica le piante con il loro nome e le loro caratteristiche (Ostensio Simplicium).

Il giardino medievale, nel corso d’una recente campagna di indagini archeologiche, è stato rinvenuto a circa due metri di profondità sotto l‘attuale piano di calpestio.

Nel 1666 don Diego del Core «...fe compra libera di una casa palazziata con giardini... la casa con giardinetto fu restaurata e accomodata e resa abitabile.» Dall'atto notarile si ricava inoltre una delle prime descrizioni del terrazzo e del giardino: «...vi è una loggia parte coperta a lamia a vela sostenuta da pilastri e parte scoperta e pavimentata attorno, coi suoi pezzi d’astrico del quale si gode il mare e i monti circonvicini, con una fontana in destra di essa con acqua perenne...vi è un muro che regge la fontana, ma che è malmesso e potrebbe crollare danneggiando la loggia...in esso vi è una porta che con sette gradi si cala nel giardino il quale consiste in un luogo piano, ha due piedi di fico, due di cetrangolo e vite che facevano pergola sopra otto pilastri di fabbrica, ma presente si vedono per terra perchè sono marciti i legnami che formavano la medesima, altri pilastri parte sono cascati e parte lesionati.» Viene menzionata anche la peschiera e la scala che conduceva al secondo livello del giardino. In questo vi sono altri alberi di fico ed una fontana che alimenta la vasca sottostante. La proprietà, quindi, alla metà del seicento, nonostante i molti guasti, mostrava già l‘aspetto che attualmente connota il luogo.

Ultimo proprietario fu il professor Giovanni Capasso che, grazie all'interessamento dell’avvocato Gaetano Nunziante, presidente dell‘Asilo di Mendicità, donò nell'immediato secondo dopoguerra l’intera proprietà a tale benefica Istituzione.

A novembre del 1991, a Salerno, durante i lavori del simposio dal titolo Pensare il giardino, fu presentato il progetto per la realizzazione di un Orto botanico dedicato a Silvatico ed al suo Giardino dei semplici. Tale progetto è stato poi finanziato e realizzato nel 2000 dall'Amministrazione Comunale (attuale proprietaria del bene) utilizzando le provvidenze del programma europeo “Urban”.

Ciò che oggi, al termine dei lavori di restauro, appare evidente al visitatore è un’interessante serie d‘elementi ascrivibili tra il XVII ed il XVIII secolo. Tra questi, il più caratterizzante è una lunga scalea, sottolineata da pilastri a pianta cruciforme, che sorreggono una pergola di legno. La scalea, che collega ed inquadra visivamente i diversi livelli del giardino è costruita sulle mura antiche della città e permette un’ampia e privilegiata visione del mare, del Centro storico e delle colline. Un complesso sistema di distribuzione dell’acqua, composto da canalizzazioni, vasche e fontane (una per ogni terrazzamento), denota la presenza di fonti cospicue che hanno permesso, nei secoli, il mantenimento a coltura degli appezzamenti. Il sito è inoltre dotato di un particolare microclima, favorito dalla scarsa incidenza dei venti di tramontana e dalla favorevole esposizione, che, ancora oggi, consente la coltivazione di specie vegetali esigenti in fatto d’umidità e calore.

Matteo Silvatico e le sue Pandette

I Silvatico giunsero a Salerno, da Tosciano Casale. La famiglia, molto antica ed influente, iscritta nel Seggio del Campo, espresse già un medico agli inizi del XII secolo: Giovanni Silvatico, milite e barone.

Nell’anno 1188 è ricordato un altro Giovanni Silvatico, anch’egli medico. Nel 1239, Pietro Silvatico fu procuratore di Terra di Lavoro e del Contado di Molise per l’imperatore Federico II. In seguito un Ruggiero Silvatico, nell’anno 1269, era tra i feudatari di Carlo, principe di Salerno. Tra il XIII ed il XIV secolo, si distinse Matteo Silvatico, insigne medico della Scuola Salernitana e profondo conoscitore di piante per la produzione di medicamenti. Il manoscritto Pinto riporta la notizia che la casa dei Silvatico si trovava nei pressi della chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Matteo godette d’ampia fama, tanto che il re di Napoli, Roberto d’Angiò, lo volle tra i suoi medici personali, concedendogli, poi, il titolo di miles, come segno di gratitudine e liberalità. Con tale titolo compare in un documento stilato tra l’arcivescovo di Salerno e la confraternita dei Crociati. Giovanni Boccaccio, probabilmente lo conobbe presso la corte del re Roberto, dedicandogli poi, nel Decamerone, la X novella della IV giornata.

Le Pandette

L’opera principale del maestro Silvatico furono le Pandette (Opus Pandectarum Medicinae), un lessico sui semplici per lo più d’origine vegetale. Il manoscritto fu completato nel 1317 e dedicato al re di Napoli Roberto d’Angiò. Un secolo e mezzo dopo Angelo Catone Sepino, medico personale di Ferdinando I d‘Aragona re di Napoli, reputò l’Opera estremamente interessante, tanto da curarne la prima edizione, stampata a Napoli nel 1474. Nel secolo successivo le Pandette furono ripubblicate più volte con l‘aggiunta di indice e additio.

Le Pandette, nell’edizione a stampa veneziana del 1523, sono composte da 721 capitoli: di questi 487 trattano di vegetali, 157 di minerali, 77 di animali e 3 descrivono semplici dei quali non siamo stati in grado di dare una definizione. I 487 vegetali sono denominati con 1972 nomi (tra latini, arabi e greci), con una media di 4 sinonimi per pianta. I capitoli delle Pandette si aprono con il nome del semplice, segue poi l’elenco dei sinonimi (latini, arabi e greci), la descrizione morfologica desunta da autori illustri (per lo più Dioscoride e Serapione il giovane) o dall‘esperienza personale, la complessione (cioè la “natura” del semplice) e si chiudono con l’elencazione delle proprietà terapeutiche. La denominazione del capitolo è un primo indizio evidente di quanto la cultura orientale abbia influenzato l‘opera di Silvatico: dei 487 capitoli che riguardano le piante, 233 (il 42,9%) sono definiti con un nome di origine araba, 134 (il 27,6%) con uno di origine greca e soltanto 120 capitoli (il 24,6%) sono denominati tramite un termine latino. Quest’influenza risulta ancora più chiara se si considera il significativo numero di capitoli dedicati alle specie di origine esotica. Su di un totale di 484 piante da noi identificate, 67 (il 13,8%) sono esotiche. Tale influsso è uno degli aspetti più singolari e irripetibili dell‘Opera. Nessun altro trattato europeo compendierà tanti nomi arabi per definire piante di origine mediterranea.

La descrizione morfologica è quasi sempre ricca di particolari, spesso ripresa dai classici; le parti del vegetale vengono o descritte o paragonate a organi simili di piante molto note o già illustrate. C‘è molto dell’esperienza di Silvatico in queste minuziose descrizioni. Tra i meriti che vanno riconosciuti al lavoro di Silvatico, va sottolineato il rigore scientifico adoperato nella descrizione e nella elencazione delle proprietà dei semplici vegetali; nulla traspare cioè della tradizione magico-superstiziosa propria di altri testi.

E' interessante infine notare la grande attenzione dedicata dall'Autore agli organi ipogei della pianta (radici, rizomi, bulbi, tuberi ecc.). Nelle descrizioni essi sono sempre citati e la loro forma spesso influenza il nome stesso della pianta, così come, da Linneo in poi, sarà il fiore ad influenzare la nuova nomenclatura binomia.

La dottrina terapeutica

Contraria contrariis curantur

La terapeutica medievale salernitana e, di conseguenza, anche gli studi di Botanica medica, si fondano essenzialmente sulla “dottrina dei quattro umori” basata a sua volta sull‘antica “teoria degli elementi”. E’ con Pitagora di Samo ed i suoi seguaci della scuola di Crotone che si perfeziona, verso la metà del VI secolo a.C., la dottrina collegata al concetto di “armonia” che regge e governa la composizione della materia; un’armonia non statica ma che si trova in un continuo equilibrio instabile, risultato dell’antagonismo bilanciato di forze opposte che sono insite nelle cose. L’armonia che regge l’Universo regge anche l’Uomo, dandogli la salute, e il turbamento di questo equilibrio provoca la malattia. Ma l’influenza dei Pitagorici sulla Medicina va oltre. Per loro, la vita è costituita da quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua, cui corrispondono quattro qualità: secco, freddo, caldo e umido. Gli umori (sangue, bile nera, bile gialla e flegma) corrispondono ai quattro elementi (aria, terra, fuoco e acqua) e possiedono le stesse caratteristiche. Gli umori e, quindi, gli elementi sono poi in rapporto diretto con le cosiddette “qualità primarie” da loro possedute: caldo, freddo, umido, secco. «[…] Quattro sono gli umori del corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Il sangue è umido e caldo, il flegma freddo e umido, la bile gialla calda e secca, la bile nera secca e fredda […]» . La combinazione di questi quattro umori determina il “temperamento” dell’individuo, le sue qualità mentali e il suo stato di salute. E’ la teoria degli umori, che dal 500 a.C. dominerà pressoché incontrastata sino alla rivoluzione di Virchow del 1858!

Il corpo umano è quindi governato dalla presenza di questi quattro umori, ed un loro disequilibrio genera nel paziente lo stato patologico. La malattia, intesa come abbondanza di un umore nei confronti degli altri, deve quindi essere contrastata usando un prodotto (sia esso “semplice” o “composto”) di natura opposto all’umore in surplus. Da ciò deriva l‘importanza di classificare i “semplici” vegetali con lo stesso criterio utilizzato per lo studio degli umori dell’uomo. Ci saranno perciò semplici caldi e umidi, caldi e secchi, freddi e umidi e freddi e secchi.

Ma, accanto a questa prima suddivisione, se ne affianca una seconda di uguale importanza, che, attraverso la “gradazione”, ne precisa la potenza d‘azione fisiologica. Il “grado” è, tra l’altro, il criterio di classificazione principale dei semplici utilizzato nel Graduum simplicium, detto anche De simplici medicamine, di Costantino Africano († 1085). Si tratta «[...] della quantità in cui la medicina è calda, fredda, secca o umida. Vi sono quattro gradi. Il quarto è quello in cui la medicina è così calda che non si può più [agire] senza uccidere. Essa ucciderebbe chi ne facesse uso in grande quantità. [...]»

Le aiuole del primo terrazzamento, già suddivise in quattro “spicchi” grazie ai due vialetti ortogonali preesistenti, ben si prestano per tale rappresentazione didattica. Si può così spiegare le fondamenta teoriche della cura vigenti presso la Scuola Medica, confrontando inoltre il criterio di classificazione medievale con quello moderno per famiglie, di origine linneiana.

IL SISTEMA DELLE ACQUE

«Sì come il corpo senza l'anima è morto, così è non altrimenti il giardino senza l'acqua».

Così scrive Agostino del Riccio, ex frate domenicano fiorentino, nella sua monumentale opera manoscritta Trattato di agricoltura sperimentale (1595), in un capitolo intera­mente dedicato alle acque. Effettivamente l'acqua è, nel giardino mediterraneo, da sempre un fattore limitante: troppo poca durante l'estate, sì da richiedere l'indispensabile irrigazione, troppa durante l'inverno, imponendo il suo allontanamento dal terreno, con adeguati sistemi di drenaggio.

Uno degli elementi fondativi dell'agricoltura mediterranea è la sapienza nella gestione dell'acqua ad uso irriguo. Nei secoli, quindi, i sistemi di captazione, adduzione e stoccaggio dell'acqua si son sempre più raffinati nella funzionalità, ma anche nelle intrinseche qualità estetiche, arrivando al punto di trasformarsi in veri e propri elementi d'ornamento dell'orto-giardino. Esempio emblematico è il giardino di villa d'Este a Tivoli, con le imponenti cascate e i tanti giochi d'acqua: un'attività necessaria quale è l'irrigazione finisce dunque per legare le pratiche agronomiche all'estetica, la periodica e necessaria somministrazione di acqua al gusto del bello e della elaborazione formale. Le catene d'acqua, il susseguirsi lungo il pendio del giardino di fontane, zampilli e rivoli non hanno quindi solo una funzione estetica, ma anche d'organizzare l'irrigazione per tutto il giardino.

Peschiere, cisterne, canalette rappresentano una nota inconfondibile nell'immaginario del giardino mediterraneo. Tali manufatti richia­mano alla memoria la cultura del giardino islamico, che tanto ha influenzato nei secoli passati il paesaggio agricolo delle nostre terre.

Anche il territorio di Salerno e della costiera amalfitana è caratterizzato dalla presenza di tali sistemi di captazione e adduzione delle acque. Anzi questo territorio, per le sue caratteristiche orografiche, per la disponibilità d'acqua in quota e per le potenzialità agrico­le che da sempre ha espresso (colture agrumicole, vigneti, orticoltura, floricoltura), era naturalmente destinato ad essere luogo di sperimentazione di tali tecniche irrigue. Tutto l'impluvio a monte di Minori è, ad esempio, collegato da una fitta rete di canalette che d'estate riempiono d'acqua le numerose vasche poste su ogni terrazzamento. Per non parlare poi delle canalizzazioni al servizio degli antichi opifici (cartiere, frantoi oleari e molini, ferriere lungo l'omonima valle amalfitana ecc.).

Un piccolo ma prezioso esempio di quest'organizzazione, dove l'utile si trasforma in ornamento, è rappresentato dal sistema di rac­colta e distribuzione delle acque del Giardino della Minerva.

LA CITTÀ MEDIEVALE E I SUOI GIARDINI

Salerno fu nel passato città di giardini e di orti. Ciò grazie al suo clima così mite, all'abbondanza di acque sorgive ed alla fertilità dei suoli. Donato Dente, nel suo libro dal titolo Salerno nel Seicento così riporta le impressioni sulla città raccolte in significativi testi storici:

«[ ... ] il lettore, perciò, poteva informarsi sul patrimonio di bellezze naturali, provvidenzialmente donate al sito della città, sull'amenità del paesaggio, sull'abbondanza di limpidissime acque, sulla mitezza delle stagioni, sull'aria 'tanto salutifera, che la Medicina riconosce le sue glorie da lei', sui campi feraci e ricchi di vigneti, sul profumo 'intenso' dei 'fiori d'aranci', sparsi tutt'intorno nei numerosissimi giardini[ ... ]».

Poche e frammentarie sono però le notizie che ci giungono sull'organizzazione di tali orti nel Medioevo. La loro distribuzione nel tessuto urbano salernitano fu sicuramente legata al disegno delle mura ed alla disponibilità d'acqua: una serie di orti terrazzati e cinti furono ubicati ad occidente lungo l'asse delle fortificazioni e del torrente Fusandola, e si giovarono della cospicua disponibilità di sorgenti ubicate alle falde del monte Bonadies; ad oriente, i giardini e gli orti nell'area dell'Orto Magno, furono grosso modo distribuiti nei pressi della cinta muraria e delle acque del torrente Faustino (oggi Rafastìa), valendosi dell'acqua proveniente da un notevole numero di pozzi; ulte­riori giardini furono sicuramente ricavati all'interno e nell'intorno dei monasteri distribuiti in tutta l'area della città antica.

Tutta la zona orientale della città, fino alla metà del X secolo, fu costellata di ampie aree destinate alle colture agrarie (da cui il nome di "Orto Magno"). Con l'andare avanti dei secoli le "terre vacue" persero il loro valore di orti per acquisire quello di veri e propri lotti edificabili. Le case dotate di verziere, cetrario o pergolato di viti diminuirono sensibilmente. I pochi spazi ancora liberi rimasero di proprietà della chiesa o delle "corti comuni", una sorta di orto condominiale al servizio di più case

(cfr. P. Delogu, Mito di una città meridionale, Codice diplomatico cavese, In. 131, anno 912: Traditio medietatem de casa et terra con pergola e cetrario in orto magno sotto la porta Elina, e con pozzo).

Oggi gran parte dell'area risulta edificata; il Rafastìa scorre al di sotto del piano stradale seguendo grosso modo il tracciato di via Fieravecchia: purtroppo, a sottolineare la vocazione agricola di quest'area, è rimasto soltanto l'antico nome del quartiere.

I giardini dell'area del Fusandola, al contrario, sono ancora in gran parte esistenti. Essi dovevano essere, nella maggior parte dei casi, degli appezzamenti di terra protetti da esili muri che svolgevano la doppia funzione di proteggere gli orti e di migliorare le condizioni microclimatiche interne. Essenziale, per il funzionamento del sistema, era la cospicua disponibilità d'acqua per uso irriguo, che veniva stoccata in contenitori (le cosiddette "peschiere", ancora oggi visibili), usati anche per l'allevamento dei pesci, o per altri scopi pro­duttivi (lavorazione della cera). Tutti gli orti del Fusandola erano infatti serviti da acquedotti, di cui uno, costruito nel 1238 per conto del monastero femminile di Santo Spirito, prelevava l'acqua da una sorgente posta in un luogo denominato "Acquarola", non lontano dal monastero di San Leo (zona Canalone).

Inizialmente l'acqua di questa canalizzazione venne utilizzata per il solo uso del monastero di Santo Spirito, ma in seguito, vista anche la copiosa disponibilità della sorgente, essa venne distribuita, dietro corresponsione di un censo, dapprima ai monasteri vicini e poi ai terreni dei privati. Si creò così nei secoli un efficiente e capillare sistema d'erogazione, che, dalla sorgente "Acquarola", distribuiva acqua a numerosi orti: Giardino lo Paino, Giardino della Minerva, Giardino della Cera, Giardiniello di San Leone, Giardino grande di San Leone, Giardino di Busanola (Fusandola), Giardino delli Zicardi ed altri.

L'AFFRESCO ESTERNO

Questo affresco, recentemente riemerso e restaurato nel 2018, è un importante e raro esempio di decorazione sette­centesca da esterno. Raffigura una scenografica architettura in trompe l'oeil, dipinta a finto marmo in vivaci colori, carat­terizzata da due colonne con capitello che reggono un coro­namento spezzato di forme rococò in finto marmo sotto il quale, in fuga prospettica, è un vialetto mattonato che s'inol­tra in un giardino e giunge sino a una fontana, la cui vasca circolare è retta da figure femminili simili a sirene. Sappiamo dai documenti che questo spazio fu per secoli un giardino, e in alcuni dei vari passaggi di proprietà si accenna all'esistenza di vasche, piscine, pergole e pilastri e alla neces­sità di restaurarli o rinnovarli.

Le forme tardo-barocche e settecentesche della finta architettura e delle due "sirene" spingono a ritenere che il nostro affresco facesse parte di una serie di interventi decorativi e strutturali successivi al terremoto del 1732 e al passaggio di proprietà, nel 1734, dagli eredi di don Diego del Core - Isabella del' Giudice e Giulio Bonito - ai coniugi Andrea Prota e Rosaria Vessicchio, allo stesso modo della decorazione a fresco del palazzo adiacen­te - di cui resta qualche frammento-, della rifazione dei pila­stri delle pergole e dei loggiati, o della bella fontana "rusti­ca" con decori a conchiglie e fastigio a volute che fa da sfondo al loggiato stesso, simile a quella realizzata da Domenico Antonio Vaccaro (1742) nel chiostro grande del monastero di Santa Chiara a Napoli.

Analoghi - ma rari - esempi di decorazione parietale di tipo architettonico e vegetale, a fresco o in maiolica dipinta, sopravvivono nel cortile scoperto del Palazzo Correale di piazza Tasso a Sorrento, datata 1772 , e sul fondo del giardino pensile del palazzo Marigliano a Napoli, realizzata attor­no al 1756 dal celebre pittore ornamentista Antonio Alfano sotto la guida dell'ingegnere e architetto Luca Vecchione.

Prof. Pierluigi Leone de Castris

IL GIARDINO DI IERI, L'ORTO BOTANICO DI OGGI

Il dieci settembre del duemila s'inaugurava il primo lotto dei lavori di restauro del Giardino della Minerva. Una tappa fondamentale di quell'operazione vagheggiata durante il simposio "Pensare il giardino" del novembre 1991 era stata conseguita.

Il primo e più importante nodo da sciogliere nell'approccio al restauro del giardino della Minerva è stato la convivenza tra la struttura ancora evidente del giardino stesso, rappresentata dalle sue architetture, e la funzione di alto valore botanico che esso andrà ad ospitare.

Esempio significativo di giardino settecentesco salernitano, lo stato di conservazione prima di tale intervento risentiva fortemente dell'abbandono generalizzato e secolare in tutti gli elementi decorativi e strutturali. Accanto quindi ad una necessaria opera di ab­battimento delle costruzioni incongrue e di consolidamento strutturale (scalea pergolata, muri di contenimento dei terrazzamenti}, alla conferma di particolari stilistici non più manifesti (finiture, modanature, colore), il lavoro di restauro si è concentrato sulla ripro­posizione, quanto più accurata possibile, della sua fase caratterizzante.

Le stratificazioni più antiche del giardino sono state analizzate attraverso indagini che hanno utilizzato le tecniche proprie dell'arche­ologia dei giardini, fornendo significativi riscontri ed informazioni sulle diverse fasi storiche, facendo inoltre piena luce sul disegno mistilineo delle aiuole e sul complesso sistema, anch'esso stratificato, delle canalizzazioni. Ciò, accanto ad un accurato esame delle nove fontane, ha permesso di individuare con certezza l'antico percorso delle acque, tra condotti captanti, affluenti e defluenti.

A chiunque entri nel giardino, appaiono oggi subito evidenti le sue rilevanti qualità monumentali e paesaggistiche: i segni notevoli dell'ultima sua fase di splendore sopravvivono con grande autonomia e spessore. Qualcosa di meno evidente, ma non meno importante, è poi sotteso: il sapiente sistema, di derivazione araba e antica, di canalizzazione e distribuzione delle acque. Nato per motivi strettamente funzionali (conservazione delle risorse idriche per l'irrigazione) si è poi fatto decorazione, pur senza rinunciare al suo ruolo originario.

Ciò che invece non appare in modo evidente è, forse, la ragione principale della sua importanza: il fatto che in questi luoghi Matteo Silvatico, agli inizi del quattordicesimo secolo, fondasse il primo giardino dei semplici della Storia delle Scienze Mediche dedicato alla sperimentazione e alla didattica.

Ognuno dei caratteri suddetti, per loro stessa importanza, è stato recuperato e convive armonicamente con gli altri ed in particolare con la funzione di un Orto Botanico che accoglie solo le specie utilizzate dalla Scuola Medica e descritte nell' Opus Pandectarum Medicinae di Silvatico.

Concluso l'indispensabile restauro, il problema dell'allocarvi la collezione botanica è stato risolto cercando di conservare ed esaltare i caratteri più propri di orto/giardino mediterraneo.

Ciò sta a significare che il Giardino della Minerva, non è un Orto Botanico di tipo tradizionale ma deve proporsi per i numerosi temi e le multiformi specificità presenti in esso (dalla Storia della Medicina a quella del "Giardino mediterraneo").

I temi didattici sviluppati e/o ancora da sviluppare possono, sinteticamente, essere così enunciati:

a) Il giardino mediterraneo tra "bello" ed "utile" (organizzazione di un orto cinto e terrazzato).

b) L'orto dei semplici di Silvatico:

  1. l'antico sistema di classificazione dei semplici,
  2. il confronto tra i disegni degli erbari medievali e la realtà;
  3. il "giardino delle radici".

Attraverso lo sviluppo del primo tema si desidera porre all'attenzione dei visitatori le invarianti del sistema orto/giardino di area salernitana; quali i riferimenti più certi per la sua conoscenza, quali gli elementi che lo legano al concetto di giardino mediterraneo e cosa invece lo distingue dai mille diversi esempi che si incontrano nel grande bacino del Mediterraneo: la storia, il paesaggio, l'uso della luce e dell'acqua, i materiali, la vegetazione.

Il tema legato alla tradizione botanica salernitana ha, quale primo importante elemento didattico, la rappresentazione, nell'area del primo e più vasto terrazzamento del giardino, dell'antico sistema di classificazione vegetale (il parterre delle comples­sioni e delle gradazioni).

In tutte le altre aiuole del giardino le piante sono sistemate con un criterio "paesaggistico". Tutte le specie sono identificate con una speciale targhetta che richiama l'ideale posizione di quel semplice in un disegno rappresentante lo "schema degli elementi" sovrapposto alla suddivisione concentrica della gradazione.

Definita la struttura vegetale del giardino/orto, le parcelle sono utilizzate per la coltivazione di annuali, biennali e perenni erbacee, che numericamente rappresentano gran parte dell'elenco, e che, così organizzate, completano l'immagine di orto mediterraneo.


Testi: LUCIANO MAURO Conservatore del Giardino.

Maggiori Informazioni su: www.giardinodellaminerva.it

Viste prospettiche del Giardino

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